Il D.Lgs. 31.3.1998, n. 80 (come modificato dal D.Lgs. 29.10.1998, n. 387), aveva reso obbligatorio il
tentativo di conciliazione stragiudiziale nell’intento di imporre un filtro alle controversie di lavoro, con funzioni deflattive.
Gli artt. 410, 410 bis, 412 bis, prevedevano, infatti, una forma di giurisdizione condizionata, considerata costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale, in quanto non limitava il diritto di azione.
Con il D.Lgs. 4.3.2010, n. 28, invece, si prevede il carattere meramente facoltativo del tentativo di conciliazione.
Nel caso di rapporti di lavoro privato, perché la
domanda giudiziale diventi procedibile, è possibile desumere dalla norma in esame una alternativa tra il tentativo di conciliazione dinanzi alla commissione amministrativa (dalla norma stessa individuata) e le procedure conciliative eventualmente previste da contratti o accordi collettivi.
Non è possibile ricondurre ad unità le relative discipline, in quanto ciascun contratto può prevedere un diverso procedimento; tuttavia, in mancanza di previsione delle stesse, le regole sono determinate dalle parti e da coloro che le assistono.
Nel caso in cui la conciliazione riesca, la fase finale del procedimento è specificamente disciplinata dal terzo comma dell’
art. 411 del c.p.c..
Nell'individuazione delle controversie che devono essere necessariamente precedute dal preventivo tentativo di conciliazione, si fa espresso riferimento alle domande relative ai rapporti di cui all'
art. 409 del c.p.c..
Da ciò ne consegue che la condizione di procedibilità non vale per tutti i giudizi che devono seguire il rito speciale del lavoro, ma solo per quelli che hanno ad oggetto un rapporto di lavoro riconducibile a tale norma.
Sono così escluse le controversie previdenziali, per le quali l’
art. 443 del c.p.c. prevede la diversa condizione di procedibilità dell'esaurimento del procedimento amministrativo.
Per le controversie di
pubblico impiego devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, pur rientrando nell'ambito dell'art. 409, l'
art. 65 del T.U.P.I. dispone che il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dalla norma in esame si svolga secondo le procedure previste dai contratti collettivi, ovvero secondo la disciplina speciale prevista dallo stesso art. 65 e dal successivo
art. 66 del T.U.P.I..
Come si è prima detto, il tentativo di conciliazione, oltre che in sede sindacale, può essere esperito dinanzi ad una commissione amministrativa, la cui istituzione e composizione è espressamente prevista dal quarto comma.
Tale commissione è costituita in ogni provincia (presso la Direzione provinciale del lavoro) ed è composta dal direttore dell'ufficio o da un suo delegato o un magistrato collocato a riposo, che la presiede, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti sia dei lavoratori che dei datori di lavoro, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale territoriale.
Le commissioni possono delegare le proprie funzioni a delle sottocommissioni, presiedute dal direttore o dal suo delegato, le quali devono rispecchiare la composizione della commissione.
La competenza territoriale della commissione va individuata sulla base dei criteri dettati dall’
art. 413 del c.p.c..
Nel caso di istanza proposta ad una commissione incompetente, se la commissione non rileva il vizio e procede e se la conciliazione riesce, la stessa è perfettamente valida; qualora non riesca, si verifica la condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
In materia di pubblico impiego il primo comma dell'
art. 66 del T.U.P.I. dispone che, in alternativa alle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dal precedente art. 65, si può svolgere dinanzi ad un collegio di conciliazione istituito presso la direzione provinciale del lavoro, nella cui circoscrizione si trova l'ufficio cui il lavoratore è addetto, ovvero era addetto al momento della cessazione del rapporto (anche se promosso dalla pubblica amministrazione).
Per quanto concerne la forma ed il contenuto dell’istanza di conciliazione, la norma in esame disciplina espressamente il contenuto di essa.
Riprendendo quanto prevedono i commi 2 e 3 dell’
art. 66 del T.U.P.I. per le controversie in materia di pubblico impiego, i commi 6 e 7 di questa norma prevedono che:
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la richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, deve essere consegnata alla Direzione presso la quale è istituito il collegio di conciliazione competente o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento;
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copia della richiesta deve essere consegnata o spedita a cura dello stesso lavoratore all'amministrazione di appartenenza;
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nell'istanza si devono indicare:
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l'amministrazione di appartenenza e la sede alla quale il lavoratore è addetto;
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il luogo dove devono essere fatte all'istante le comunicazioni inerenti alla procedura;
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l'esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa;
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la nomina del proprio rappresentante nel collegio di conciliazione o la delega per la nomina medesima ad un'organizzazione sindacale.
Con riferimento alla forma dell'istanza, sussiste un contrasto tra coloro che ritengono necessaria la forma scritta e coloro che ritengono ammissibile la richiesta orale, salva verbalizzazione da parte della Commissione oppure ammettono la proponibilità in forma orale, ma ritengono consigliabile la forma scritta a soli fini probatori.
Nel caso in cui la commissione adita si ritenga incompetente per territorio o per materia, ovvero se considera l'istanza carente dei requisiti richiesti, può dichiarare l'inammissibilità dell'istanza.
Il provvedimento che dichiara l’inammissibilità può essere impugnato dinanzi al giudice amministrativo; in alternativa, la parte istante, decorso il termine di cui all'
art. 410 bis del c.p.c., può proporre la domanda giurisdizionale ed il giudice del lavoro, se ritiene l'istanza effettivamente inammissibile, stima improcedibile la domanda e dispone la sospensione del giudizio ex
art. 412 bis del c.p.c. (in assenza di ciò, il giudizio è immediatamente procedibile).
Il 2° comma dispone che la
comunicazione della richiesta di conciliazione interrompe la
prescrizione e sospende ogni termine di
decadenza per tutta la durata del tentativo e per i venti giorni successivi alla sua chiusura (nulla, però, viene precisato in ordine alle modalità della comunicazione ed al suo destinatario).
In considerazione di quanto disposto, in materia di pubblico impiego, dal secondo comma dell’
art. 66 del T.U.P.I., nella parte in cui prevede che l'istanza, oltre che consegnata ovvero spedita con raccomandata con avviso di ricevimento alla direzione presso la quale è istituito il collegio di conciliazione, debba essere consegnata o spedita, a cura del lavoratore richiedente, anche all'amministrazione di appartenenza dello stesso e considerato, soprattutto, che l'invio della richiesta determina l'effetto interruttivo della prescrizione, si riteneva che l'istanza prevista dalla norma in esame, perché determinasse l’effetto interruttivo della prescrizione, dovesse essere inviata a cura della parte interessata anche alla controparte, con raccomandata con avviso di ricevimento, anche al fine di conseguire la prova della ricezione.
Secondo altra tesi, invece, la comunicazione doveva essere effettuata alla controparte a cura della commissione, che nell'inviare la convocazione può ma non deve allegare anche la domanda di conciliazione (tesi, tuttavia, contrastata da chi poneva in evidenza che in tal modo il determinarsi degli effetti sostanziali sarebbe dipeso dalla diligenza della commissione).
Sotto il profilo degli effetti processuali prodotti dalla presentazione dell'istanza di conciliazione alla commissione, va osservato che l'
art. 410 bis del c.p.c. prevede che, decorso il termine di sessanta giorni da tale momento, il tentativo, anche se non avvenuto, si considera comunque espletato ai fini della procedibilità della domanda ex
art. 412 bis del c.p.c..
La giurisprudenza sembra ormai consolidata nel senso che il termine di sessanta giorni per la procedibilità della domanda decorre dalla mera presentazione o inoltro della domanda di conciliazione, a prescindere dall'avvenuta
comunicazione alla controparte, mentre da tale comunicazione dipendono e decorrono gli effetti sostanziali dell'interruzione della prescrizione e della sospensione delle decadenze.
Per quanto concerne le forme della procedura, la norma in esame si limita a stabilire che la commissione, ricevuta la richiesta, convoca le parti per una riunione da tenersi entro dieci giorni dal ricevimento della richiesta stessa, fissando un termine, il quale però non ha natura di
termine perentorio; nella riunione stessa le parti possono farsi assistere da consulenti legali e sindacalisti.
Viene tuttavia precisato che, per la validità della riunione, debbono partecipare alla stessa il presidente della commissione ed almeno un rappresentante dei datori di lavoro ed uno dei lavoratori e che, in caso di mancata presenza di uno dei componenti necessari, il direttore dell'ufficio certifica l'impossibilità di procedere al tentativo di conciliazione.