Eccezioni al principio generale della ripetizione dell'indebito
Le due norme enunciano una duplice eccezione al principio generale contenuto nell'articolo precedente. E cioè che il diritto di ripetere l'eseguito pagamento d'un indebito oggettivo viene meno quando il pagamento stesso abbia consistito:
a) nella spontanea esecuzione di doveri morali o sociali;
b) nella prestazione data per uno scopo che, anche da parte di chi esegui il pagamento, costituisca offesa al buon costume.
Pongono in rilievo i lavori preparatori che la norma di cui all'
art. 2034 del c.c. va riferita esclusivamente all' indebito oggettivo perché soltanto rispetto ad esso si può dire che giuridicamente il pagamento non era dovuto, ma era dovuto moralmente.
La stessa osservazione può ripetersi per la norma di cui all'art. 2035: anzi a maggior ragione, perché nell'ipotesi ivi prevista può dirsi che il pagamento non era dovuto neppure moralmente.
Adempimento delle obbligazioni naturali
L'art. 1237 secondo comma del codice abrogato escludeva la ripetizione del pagamento «
riguardo alle obbligazioni naturali che si sono volontariamente soddisfatte ».
II nuovo codice non accenna alle obbligazioni naturali se non nel titolo della norma in esame: nel suo contenuto, invece, si riferisce soltanto
ai doveri morali o sociali.
Ha, dunque, voluto identificarli colle obbligazioni naturali ?
Cosi si capisce perché il n. 557 della relazione al codice, dopo avere detto che «
nell'art. 2034 i doveri morali e sociali vengono contrapposti all'obbligazione in quanto ai primi si riconosce solo l'effetto di considerare irripetibile ciò che sia stato prestato in osservanza di essi da persone capaci », e dopo avere soggiunto che «lo stesso trattamento dei doveri morali e sociali fatto a tutti quegli altri doveri a cui la legge dichiara di non accordare -azione, ma rispetto ai quali esclude la ripetizione di ciò che sia stato spontaneamente pagato (ad es. art.
627,
1933 e
2940), non dà una definizione di quei doveri, e neppure delle obbligazioni naturali.
Anzi di proposito afferma che non è compito del legislatore stabilire se le due categorie di doveri non coercibili abbiano lo stesso contenuto etico o si differenzino tra loro; e spiega che il codice «
le ha raggruppate sotto l'unica denominazione di obbligazioni naturali esclusivamente perché ha dato ad entrambe un unico regolamento »: il quale consiste «nel negare la ripetizione di ciò che sia stato spontaneamente pagato in base ai doveri medesimi, e nello stabilire ch'essi non possono produrre altri effetti giuridici oltre quelli della «
soluti retentio ».
Dalle quali precisazioni — e dagli altri elementi che possono ricavarsi dai lavori preparatori
- può dedursi che il nuovo codice, superando il dibattito della dottrina sul concetto e sulla definizione delle obbligazioni naturali, le ha poste, nell'
art. 2034 del c.c. agli effetti del pagamento dell' indebito, sullo stesso piano dei doveri morali e sociali, anzi con questi le ha identificate, indicandone quali caratteristiche:
1) la loro scaturigine da singoli eventi, secondo la nozione dell'uomo onesto in una data società e in un dato tempo;
2) la loro incidenza nella sfera della vita morale e sociale, con conseguenze patrimoniali, ma senza l'ausilio di un'azione della quale il legislatore non le ha fornite;
3) l’incoercibilità, e quindi impossibilità di pretenderne, in via d'azione, l’adempimento, salvo l'effetto giuridico — che unicamente è stato riconosciuto — della proponibilità, in via d'eccezione, della
soluti retentio per respingere la ripetizione di ciò che sia stato spontaneamente.
Così l'obbligazione naturale non è un vincolo giuridico neppure imperfetto: è soltanto un dovere di coscienza, o da convenienze sociali, a contenuto patrimoniale, il cui spontaneo adempimento la legge prende in considerazione: non però come effetto giuridico diretto e immediato d'una obbligazione fornita di azione; ma come conseguenza dell'avvenutone spontaneo adempimento.
Ed è, appunto, questo stato di fatto, liberamente voluto dal debitore, e al quale egli ha voluto adattarsi spontaneamente per ragioni morali o di convenienza sociale, che la legge tutela, riconoscendo al creditore il diritto d'opporre alla ripetizione dell'avvenuto pagamento, l'eccezione della
soluti retentio.
Si è già ricordato, come esempio di obbligazione naturale, esplicitamente prevista dal codice (
art. 2940 del c.c.), lo spontaneo pagamento d'un debito prescritto.
Correttamente viene indicato a anche lo spontaneo pagamento d'un debito estinto per sentenza ingiusta — ed è stato ritenuto adempimento ad obbligazione naturale anche la prestazione degli alimenti, da parte d'un patrigno alla figliastra, ricevuta in casa dall'infanzia e sempre considerata come figlia.
Caratteristiche e condizioni
Perché il pagamento di un'obbligazione naturale realizzi un indebito oggettivo, di cui resta esclusa la ripetizione, è necessario:
1) che la prestazione ne sia stata spontanea, cioè non coatta.
Tale chiarimento è autentico perché è dato dai lavori preparatori, e collo specifico scopo di precisare che spontaneità non significa volontarietà, e che lo spontaneamente dell'art. 2034 dev'essere interpretato in modo diverso da quella ch'era interpretazione, data da una parte della dottrina, al volontariamente dell’art. 1237 del codice abrogato.
A questa interpretazione — che intendeva il volontariamente nel senso d'un pagamento eseguito nonostante la scienza che l'obbligazione fosse soltanto naturale — il nuovo codice ha preferito l'altra che lo intende come significativo d'un pagamento effettuato senza coazione derivante sia da pronuncia di giudice, sia da istanza o costrizione altrui. E, appunto, per meglio esprimere tale preferenza e tale concetto, il legislatore ha sostituito al volontariamente dell'art. 1237, lo spontaneamente che si riconduce allo «
sponte » e al «
non coactus » del diritto romano.
Cosi, illustrano i lavori preparatori, «
quell'errore del solvens che, in ogni altro debito civile, è presupposto indispensabile per ammettersi a condicio indebiti (errore oggettivo per avere supposto esistente un debito che non esiste, errore soggettivo per avere creduto creditore del debito realmente spetta il pagamento) diventa irrilevante e resta senza influenza quando si tratta di obbligazione naturale ».
Non sembra facile, però. Dire per quali specifici elementi al concetto espresso dall’art.
2034, risponderà la realtà dei fatti e delle cose – e soprattutto la possibilità del loro esatto inquadramento giuridico in quel concetto. Perché, ad esempio, una prestazione data a seguito d’intervento altrui, o anche dello stesso accipiente, per persuasione o per dolo, dovrebbe dirsi, bensì non coatta – secondo il significato attribuito a tale espressione dai lavori preparatori e dalla relazione – ma non si sa come potrebbe essere anche ritenuta spontanea.
2) Che la prestazione sia stata fatta da persona capace.
Adempiuta l’obbligazione il creditore è protetto contro l’impugnativa del pagamento che si fonda sull'incapacità del debitore (n. 12 relaz. al libro delle obbligazioni). Non può prevalere l'interesse che pone l'ordine giuridico a che gli atti dell' incapace siano compiuti colle formalità preordinate dalle leggi, di fronte al fatto che il debito esisteva e che il pagamento corrispondeva alla prestazione dovuta (n. 564 relaz. al cod. civ.). E infatti
art. 1191 del c.c. stabilisce che il debitore, il quale abbia eseguito la prestazione dovuta, non pub impugnare il pagamento a causa della propria incapacità.
Ma se questa sussista, «
non potendo l' incapace contrarre una valida obbligazione giuridica, a maggior ragione non pub rimanere obbligato a tenere fermo l'adempimento di un dovere morale, sociale, o per cui la legge non consente azione » (n. 790 relaz. al cod. civ.).
Il concetto d' incapace va rapportato, quindi, all' incapacità legale ad essere parte nella formazione del contratto quale risulta dall'
art. 1425 del c.c.. Ciò è confermato anche dal chiarimento contenuto nel n. 609 della relazione al cod. civ., ove, riferendosi all'incapacità dell'imprenditore prima della conclusione del contratto (
art. 1330 del c.c.), si dice: «
Parlandosi d'incapacità, qui e altrove (ad es. art. 1270 secondo comma; 1723 secondo comma e 1939) si allude a quella classica e rigorosa configurata nell'articolo 1425 ».
Il secondo comma dell'art. 2034 esclude, poi, dall'obbligazione naturale ogni altro effetto oltre quello, già indicato, della
soluti retentio.
Per questa limitazione resta anche esclusa la novabilità dell'obbligazione naturale, nonché la possibilità di assumere una valida obbligazione civile sul fondamento di una obbligazione naturale: cioè la possibilità della sua garanzia mediante pegno, fideiussione, ecc.
E per la stessa limitazione è sembrato inutile riprodurre anche la norma dell’art. 1830 dell’abrogato codice sull’irripetibilità degli interessi non dovuti. Perché, come dice la relazione al cod. civ. (n. 594) - «
se la loro misura è contenuta in limiti leciti, la relativa corresponsione costituisce adempimento di un’obbligazione naturale per cui non è ammessa ripetizione », mentre se si tratta di interessi usurari, si versa nell’illecito che, come tale, dà luogo a ripetibilità.
Prestazione contraria al buon costume
La seconda eccezione al diritto di ripetere l’eseguito pagamento di un indebito oggettivo ricorre, come detto, quando la prestazione abbia avuto uno scopo che, anche da parte di chi la eseguì, costituiva offesa al buon costume.
La norma non ha riscontro nel codice abrogato. Ma la dottrina e la giurisprudenza – muovendo dall’enunciazione dell’art. 1122 che, quando era contraria alla legge, al buon costume o all’ordine pubblico, la causa era illecita – consentivano la ripetizione del pagamento fatto in dipendenza di essa, ove l’illiceità fosse soltanto da parte dell’accipiente, non se ricorresse da parte dl solvente o di entrambi.
Anche il nuovo codice riproduce, all’
art. 1343 del c.c., lo stesso concetto della causa illecita enunciato dal codice abrogato.
Ma l’art. 2035 si riferisce alla sua illiceità soltanto per una prestazione contraria al buon costume.
Le ragione che ne indica la relazione al codice civile (n. 790) sono queste: «
che l’irripetibilità di quanto sia stato prestato in una situazione di turpitudine reciproca, o anche imputabile soltanto al solvens, risponde alla finalità dell’ordine giuridico che non può dare tutela a chi non ne è degno ».
Da quanto ora affermato si deduce:
1) che, per il nuovo codice,
la ripetizione del pagamento eseguito per una causa illecita, siccome contraria a norme imperative o all’ordine pubblico (
art. 1343 del c.c.),
non trova fondamento nell’istituto del pagamento dell’indebito. Più precisamente: poiché il contratto a causa illecita costituisce un
genus di cui sono
species l’essere contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (
art. 1343 del c.c.), e soltanto per quest’ultima specie di contratto è dettato il regime eccezionale dell’art. 2035 c.c., ne consegue che tale regime non può essere esteso alle altre due specie – con la conseguenza che in tutti i casi di contratti a causa illecita, che non sia causa turpe perché contraria al buon costume, l’azione di indebito è sempre consentita, anche quando si tratti di atto contrario a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, pure se colui che ha eseguito la prestazione sia stato consapevole e partecipe dell’illecito.
L’azione di indebito resta, quindi, negata soltanto per le prestazioni costituenti offesa al buon costume (
contra bonos mores): e l’esclusione sussiste tanto se la prestazione è stata eseguita in una situazione di reciproca turpitudine (
in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis), come in caso di turpitudine del solo
solvens (nemo auditur suam turpitudinem alligans).
Dev'essere, pertanto, respinta — siccome contraria alla lettera e allo
r spirito della legge — ogni tendenza, dottrinaria o giurisprudenziale, che voglia estendere il concetto di atto turpe oltre i confini dell'atto contro il buon costume, per farvi rientrare ogni forma d'illecito; e deve guardarsi sempre e unicamente alla sostanza e alla natura dell'atto per derivarne .e applicare la distinzione essenziale che, sulla concezione noministica, si è voluta fare rivivere, informandovi l'art. 2035, tra la
condicio ob turpem causam in detta norma contemplata e la
condicio ob iniustam causam, che ne resta fuori e che è quella della causa illecita per contrarietà a norme imperative o all'ordine pubblico.
2) che, per escludere la ripetizione del pagamento in ipotesi di prestazione per uno scopo contrario al buon costume, non è necessaria l'esistenza in atto d'una situazione di turpitudine, cioè un fatto compiuto che costituisca offesa al buon costume: basta che ricorra, e sia dimostrato, che la prestazione fu eseguita per quella finalità. Sicché, se anche tale finalità, per qualunque motivo, non è stata raggiunta, resta ugualmente ferma l'irripetibilità del pagamento per essa eseguito;
3) che, poiché la norma è applicata anche quando il fatto costituisca offesa al buon costume soltanto per chi ebbe ad eseguire il pagamento, resta fissato il significato di quell' “anche” della norma stessa, in senso non aggiuntivo ma esclusivo: non nel senso, cioè, che il fatto debba costituire offesa al buon costume oltreché per l'accipiente anche per il solvente; sebbene nel senso che basta — ma è necessario — che lo costituisca per quest'ultimo.
Questo concetto era espresso più chiaramente esprimeva dall'art. 27 capoverso del progetto del libro delle obbligazioni, per il quale «
chi ha soddisfatto un'obbligazione contraria al buon costume non può esercitare l'azione di ripetizione, salvo che egli sia stato immune dalla violazione ».
La ripetizione, dunque, è ammessa unicamente nel caso in cui il solvente non versi — come dice la relazione — in una situazione di turpitudine: in ogni altro caso la ripetizione resta esclusa.
Il passo della relazione citata (n. 790) fa intendere che la disposizione s'informa a un criterio assoluto e totalitario della difesa morale. E la norma avrebbe ancora meglio raggiunto il suo scopo e ancor di più appagato la coscienza giuridica se fosse stata accompagnata, come sanzione contro l'accipiente, nei casi di sua partecipazione alla turpitudine, dalla confisca del prezzo da esso ricevuto .
4) che non è necessario, per aversi una finalità d'offesa al buon costume, che si tratti d'un fatto giuridicamente inquadrabile nella figura di taluno dei reati previsti dal titolo IX del codice penale: ma basta che lo scopo ne sia diretto o incida in una situazione incompatibile, sotto profilo del buon costume, coi principii etici della convivenza politico-giuridica. Molti atti non compresi nell'anzidetto titolo IX del codice penale sono, infatti, contro il buon costume (omicidio, furto, falso, ecc.). Ma non è altrettanto vero che ogni attività, soltanto perché penalmente punita o, comunque, co buon costume. Vi sono attività che vengono represse per ragioni speciali, contingenti o transeunti, ma che in sé considerate non intaccano quel minimo personale o sociale di etica giuridico-politica oltre quale soltanto si ha contrarietà al buon costume. Per questo è sempre da guardare alla sostanza e alla natura dell'atto nella sua essenza e nelle sue finalità.