Divieto di uso della cosa
Questa disposizione regola il modo di adempimento dell'obbligo di custodia sotto alcuni profili particolari.
Essa pone, anzitutto, il divieto al depositario di usare la cosa, senza il consenso del depositante: logica conseguenza della natura del deposito, che comporta l'affidamento della cosa nell'interesse del tradens alla custodia, non nell'interesse dell'accipiens a servirsene, come invece il comodato. Analogamente disponeva l'art. 1846 cod. abrogato, che però parlava anche di «consenso presunto» del depositante: la quale espressione, dovendo in base a corretti criteri interpretativi ritenersi allusiva a qualcosa di più della semplice possibilità di manifestazione tacita del consenso, veniva comunemente interpretata nel senso che l'uso dovesse considerarsi ammesso in funzione della sua utilità rispetto alla buona conservazione della res deposita; mentre legittima era pure l'illazione che l'uso dovesse ritenersi consentito, quando, per la natura della cosa, esso riuscisse del tutto indifferente al depositante, per es. quando, trattandosi di denaro, interessasse a questi soltanto la restituzione «nella medesima specie».
Onde giustamente, per evitare il pericolo di interpretazioni troppo larghe, il codice in vigore non fa più menzione del consenso presunto, e la Relazione non fa che porre in rilievo una delle conseguenze di questa soppressione, quando dice che «il divieto d'uso esiste anche quando il deposito ha per oggetto una quantità di denaro o di cose fungibili». Altra conseguenza è che la semplice «utilità» dell'uso per la buona conservazione della cosa non giova a farlo ritenere lecito, mentre esso è tale, anzi addirittura doveroso, solo se indispensabile alla conservazione medesima: la semplice utilità rimessa invece all'apprezzamento del depositante, che potrà, in vista di essa, autorizzare o addirittura obbligare il depositario ad un determinato uso della cosa.
In presenza del consenso all'uso, sorge il problema di distinguere il deposito dal comodato, comportante anch'esso la consegna della cosa e l'obbligo di costodirla. Pur non essendo dubbio che l'esercizio della facoltà d'uso debba in ogni caso essere disciplinato dalle norme sul comodato, l'importanza pratica della soluzione deriva dal diverso regolamento di alcuni momenti contrattuali per i due tipi, soprattutto per quanto concerne la scadenza dell'obbligo di restituzione della cosa (cfr. l'art. 1771 per il deposito e l'art. 1809 per il comodato).
Si può tener fermo che il contratto rimane deposito quando l'uso sia consentito per la sua utilità rispetto alla conservazione della cosa e quando sia convenuta una retribuzione per l'accipiens; negli altri casi, l'unico criterio sarà quello della prevalenza dell'interesse dell'un contraente alla custodia o dell'altro all'uso, da applicarsi mediante l'attenta valutazione di tutte le circostanze concrete della contrattazione (per es. iniziativa del tradens o dell' accipiens). In mancanza di elementi decisivi, è a mio avviso giustificata la preferenza per il comodato, poiché questo contratto, implicando sempre la custodia, ammette per sua natura la realizzazione di un interesse del tradens ad essa, come motivo a contrarre.
Le conseguenze della violazione del divieto d'uso sono anzitutto quelle normali dell'inadempimento: risarcimento dei danni, in ogni caso; risoluzione del contratto solo se il deposito è retribuito, e se si tratti di cose che si deteriorano o consumano con l'uso, poiché in diversa ipotesi è ben difficile che la violazione contrattuale rivesta l'importanza richiesta dall'art. 1455. Inoltre il depositario che viola il divieto deve ritenersi responsabile per la perdita o danneggiamento della cosa dovuta a causa non imputabile, qualora non provi che la cosa sarebbe ugualmente perita o deteriorata anche se egli non l'avesse usata (in applicazione dei principi generali sulla mora, artt. 1221 e 1222, trattandosi di obbligo di non fare, ma specialmente per analogia dall'art. 1805 cpv. sul comodato). Per i depositi di denaro, è controverso se il depositario debba gli interessi dal momento della violazione del divieto d'uso: si veda in proposito il commento dell'art. 1775.
Divieto del subdeposito e carattere fiduciario del deposito
Il divieto del subdeposito attiene alla natura fiduciaria del contratto, che implica l'esecuzione personale di esso. Tale natura, vigente il codice abrogato, si poteva positivamente desumere dalla gratuità essenziale e dalla regola della diligentia quam in suis; non era tuttavia espressamente sancito il divieto del subdeposito, forse perché sarebbe stato superfluo di fronte all'incondizionato diritto di richiedere in ogni momento la restituzione, che quell'art. 1860 accordava al depositante.
L'espressa sanzione del codice vigente sta da un canto a ribadire positivamente la natura fiduciaria del deposito, comunque si pensi della custodia intrinsecamente considerata, non sussistendo più quegli altri elementi; dall'altro, implica che il depositante, in seguito alla violazione del divieto, ha diritto di risolvere il contratto, anche se sia stato convenuto un termine a favore del depositario, come previsto dall'art. 1771. A tal fine, però il subdeposito va distinto dall'ipotesi in cui, per l'adempimento della custodia, il depositario si avvalga dell'opera di ausiliari, rispondendo del fatto di essi (art. 1228 cod. civ.), poiché la loro attività è giuridicamente riferibile al depositario medesimo; per aversi subdeposito, occorre che la res deposita sia stata consegnata dal depositario ad un terzo, concludendosi con questo un vero e proprio contratto di deposito.
Il subdeposito può essere consentito dal depositante; dal consenso può prescindersi nell'interesse stesso del depositante, solo quando ricorrano le circostanze urgenti previste dal cpv. dell'articolo in esame.
Quando il subdeposito sia lecito o comunque effettuato senza provocare in concreto l'esercizio della facoltà di risoluzione da parte del depositante, esso non implica la trasposizione dei diritti ed obblighi contrattuali verso il deponente nel subdepositario; il depositario continuerà a rispondere della conservazione della cosa, rispondendo così dell'operato del subdepositario, ma il depositante avrà anche azione diretta verso il subdepositario, per l'adempimento o in conseguenza dell'inadempimento delle obbligazioni da questi assunte con il contratto di subdeposito. È ovvio, poi, che il depositante non possa rifiutare la restituzione della cosa in condizioni inalterate offertagli dal subdepositario: egli avrebbe potuto reagire a suo tempo contro il subdeposito non consentito, risolvendo il contratto, ma non ha, alla scadenza, interesse alla restituzione personale del depositario, e pertanto la restituzione ad opera del subdepositario costituisce adempimento (art. 1180).
Variazione del modo della custodia
La variazione del modo della custodia, consentita dal capoverso dell'art. 1770 se richiesta da circostanze urgenti, tutela l'interesse stesso del depositante, in base al normale presupposto, insuscettibile di prova contraria, che a tale interesse la conservazione effettiva della res deposita sia più adeguata del risarcimento dei danni. Deve trattarsi di circostanze che rendano impossibile al depositario la continuazione o la buona continuazione della custodia, così ad es. la sua improrogahile necessità di allontanarsi per lungo tempo (necessità non solo assoluta, ad es. per richiamo alle armi, ma anche richiesta dalla cura normale dei propri interessi), o la sopravvenuta non imputabile inidoneità del locale prestabilito, ed in genere l'esposizione della cosa a gravi rischi qualora non si modifichi il modo di custodia convenuto.
Il requisito dell'urgenza deve intendersi nel senso che l'imminenza del rischio, in relazione al tempo occorrente per comunicare con il depositante, non consente di concordare previamente con lui il diverso modo di custodia. Per quanto la disposizione si riferisca letteralmente a variazioni dell'esercizio della custodia da parte dello stesso depositario, ed a variazioni del modo «convenuto» per la custodia, e a ritenersi che essa comprenda anche — qualora si tratti di circostanze che rendano impossibile la custodia ad opera del depositario, ad es. per richiamo alle armi — la possibilità del subdeposito; e che le variazioni si possano riferire, oltre che alle modalità convenzionali della custodia, anche a quelle consuete o normali; e che quindi debba ammettersi, anche se la natura della cosa non sia tale da richiedere l'uso come mezzo indispensabile di conservazione, l'uso reso urgentemente necessario da circostanze sopravvenute. Non sussistendo gli estremi richiesti, la variazione del modo di custodia convenuto o normale costituisce violazione contrattuale, implicante le consuete conseguenze.
Deposito chiuso e obbligo del segreto
L'art. 1847 cod. abrogato poneva il divieto al depositario di scoprire le cose che gli fossero state affidate in una cassa chiusa o in un involto suggellato (c.d. deposito chiuso); e la dottrina, considerando esemplificativa l'indicazione delle caratteristiche di chiusura del recipiente, riteneva che l'obbligo di non violare il segreto sussistesse tutte le volte che le modalità del deposito e la natura della cosa depositata ponessero in chiaro la volontà del depositante di mantenerlo. In questo ordine di idee, nel nuovo codice la disposizione è stata soppressa, rientrando l'obbligo del segreto tra le modalità convenzionali di custodia previste dal capoverso dell'articolo in esame, ed essendo inutile l'espressa previsione di alcune tra le circostanze (recipiente chiuso), idonee alla tacita manifestazione della volontà. È ovvio poi che le conseguenze della violazione di un siffatto obbligo contrattuale, se sussistente, saranno quelle normali.
Rilevanza autonoma della custodia e conseguenze della mancanza o insufficienza di essa
Le disposizioni dell'articolo in esame, ammettendo la possibilità di espressa pattuizione circa le modalità della custodia, e di anticipata risoluzione del contratto in conseguenza del modo di attuazione di essa (uso illecito della cosa, subdeposito, variazione arbitraria del modo di custodia), confermano l'insostenibilità della tesi, che nega la rilevanza giuridica esterna della custodia, ravvisando in essa non una prestazione, cioè un'attività dovuta, ma solo un'attività interna e strumentale rispetto alla restituzione, onde il depositante, non vantando alcuna pretesa alla custodia come tale, non potrebbe in alcun modo reagire, fino al momento della restituzione, contro la mancata o difettosa attuazione di essa.
Considerando, invece — e lo conferma l'articolo in esame — la custodia come prestazione in senso tecnico, deve invece ritenersi che il depositante ha diritto in ogni tempo di controllare se l'attività di custodia venga effettivamente prestata, e se venga prestata in modo conforme al contratto ed idoneo a garantire la sicurezza della res deposita (anche per quanto attiene all'idoneità del locale in cui essa è conservata). Ed in conseguenza, se il depositario non provveda o non provveda in modo adeguato alla custodia, si verificano immediatamente gli effetti legali dell'inadempimento: risoluzione del deposito oneroso ai sensi dell'art. 1453, rifiuto di pagamento del compenso ai sensi dell'art. 1460 (praticamente importante nel caso di corresponsione periodica), obbligo di risarcimento del depositario.
In particolare, l'obbligo di risarcimento in seguito all'alienazione abusiva, e in genere alla perdita imputabile del possesso della cosa da parte del depositario, deve considerarsi sorto non nel momento della mancata restituzione (per scadenza del termine o richiesta del depositante), ma nel momento stesso dell'alienazione o della perdita; il che conduce alla particolare conseguenza che, in caso di fallimento del depositario, dichiarato nel tempo intermedio tra i due momenti, il risarcimento è dovuto in moneta fallimentare e non integralmente.