Capacità dei contraenti in relazione alla natura del deposito di atto di ordinaria amministrazione
In linea di principio, è applicabile al deposito la regola generale dell'annullabilita dei contratti per incapacità legale o naturale di almeno una delle parti, subordinata, nel secondo caso, alla presenza delle condizioni volute dall'art. 428 (art. 1425), e fatta eccezione per l'ipotesi prevista dal successivo art. 1426. Interessa pertanto, anzitutto, stabilire se il deposito, sia dal lato attivo sia dal lato passivo, costituisca un atto eccedente o meno l'ordinaria amministrazione, poiché, nel primo caso, esso dovrebbe ritenersi vietato anche alle persone relativamente incapaci (minore emancipato, inabilitato: art. 394 e 427), e, per essere compiuto dai legali rappresentanti di quelle assolutamente incapaci (minore, interdetto), abbisognerebbe delle particolari formalità prescritte dagli artt. 320 e 374 n. 2.
Che il deposito sia un atto di ordinaria amministrazione per il depositante, non si è mai dubitato e non v'è ragione di dubitare, sia stipulata o meno una remunerazione; esso, anzi, secondo le circostanze, può costituire un tipico esempio di quegli «atti urgenti di conservazione», previsti dall'art. 361. La dottrina è invece divisa nei riguardi del depositario: ritenendo, alcuni, che l'assunzione della custodia di cose altrui, non rispondendo ad alcun interesse del depositario e per la sua gratuità, ecceda l'ordinaria amministrazione. Sembra tranquillamente sostenibile, invece, l'opposta tesi, per la considerazione che l'assunzione della custodia, anche se gratuita, non comporta per il patrimonio dell'incapace quel pericolo di grave pregiudizio, che ispira il maggior rigore nella disciplina degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione.
Obblighi del depositario in seguito all'annullamento del contratto
Per principio generale, il contratto annullabile, finché l'annullamento non sia pronunziato, produce tutti i suoi effetti. Pertanto non si è riprodotta, in quanto superflua, la disposizione dell'art. 1841 cpv. del codice abrogato, disponente che il depositario, nel caso di incapacità del depositante, «è tenuto a tutte le obbligazioni di un vero depositario». Per la stessa ragione di superfluità, il Progetto italo-francese e il Progetto 1936 della Commissione Reale non contenevano alcuna disposizione che facesse riscontro a quella dell'art. 1842 codice abrogato, relativa all'ipotesi di incapacità del depositario. Tale disposizione, concernente, a differenza della precedente, i rapporti tra le parti dopo l'annullamento del contratto, accordava al deponente l'azione di rivendica della cosa depositata, se sussistente presso il depositario, ovvero un'azione di restituzione fino a concorrenza di quanto si fosse rivolto in vantaggio di quest'ultimo. La dottrina quasi concorde ravvisava in essa nient'altro che l'applicazione di regole generali espressamente sancite in quel codice; e inoltre, considerando queste come manifestazione di un più generale principio implicito nel sistema, quello dell'ingiustificato arricchimento, ne ricavava un regime analogo per le ipotesi non espressamente previste, riconoscendo il diritto alla restituzione della cosa anche al depositante non proprietario, nonché il diritto del depositario al rimborso delle spese eventualmente sostenute per la conservazione di essa, ed inoltre considerando comune questo regime extra-contrattuale anche alla ipotesi di annullamento per incapacità del depositante. Risultava quindi chiara la superfluità della disposizione espressa, specialmente nei Progetti che, come poi il testo definitivo (art. 2041), espressamente sancivano in linea generale l'azione di arricchimento.
Senonché, la disposizione ricomparve nel Progetto ministeriale (art.739), migliorata nella forma, per la sostituzione del termine «restituzione» a quello improprio o quanto meno insufficiente di «rivendica», e preceduta dalla dichiarazione che «il depositario incapace è responsabile della conservazione della cosa nei limiti in cui può esser tenuto a rispondere per atti illeciti». Ed è rimasta, senza modifiche di sorta, nel testo attuale.
Occorre, perciò, determinare se l'articolo in esame abbia un proprio contenuto normativo, e quale, o se costituisca una pleonastica applicazione di regole generali. Poiché non può dubitarsi, per le già, indicate ragioni, che agli effetti previsti nella seconda parte dell'articolo si perverrebbe in base ai principi generali, è chiaro che l'eventuale ratio della disposizione non può essere individuata che attraverso l'esegesi della prima parte. In realtà, sembra che il giudizio di superfluità decisamente manifestato dalla Commissione delle Assemblee legislative, che ebbe a proporre la soppressione dell'articolo, derivi dall'erronea premessa, del resto non esplicita, che il disposto della prima parte consista soltanto nel far salva, una volta che l'annullamento abbia tolto di mezzo retroattivamente il contratto, l'eventuale responsabilità del depositario incapace per fatto illecito, in quanto il suo comportamento, in relazione ai danni sofferti dal depositante circa la res deposita, presenti gli estremi del fatto illecito. Se così fosse, infatti, se, in altri termini, il rinvio alla disciplina dei fatti illeciti fosse totalitario, indubbiamente la norma sarebbe superflua, essendo noto che la sopravvenuta irrilevanza sul terreno contrattuale del comportamento attuato dal contraente, in seguito all'annullamento del contratto, non esclude la valutabilità del comportamento stesso sotto il profilo dell'illecito, come se il contratto non fosse esistito sin dall'origine. E sarebbe superflua anche riguardo all'art. 2047, relativo alla responsabilità per illecito dell'incapace naturale, che verrebbe automaticamente in considerazione, non diversamente da tutte le altre norme sui fatti illeciti.
Ma non sembra questo il significato della disposizione in esame. Quando, infatti, si dice che il depositario incapace «è responsabile della conservazione della cosa...», evidentemente si presuppone la persistenza in esso, malgrado l'annullamento del contratto, dell'obbligo di provvedere a tale conservazione, e si stabilisce che la valutazione del comportamento attuato dal depositario rispetto alla cosa debba avvenire in funzione dell'obbligo medesimo, Ciò, beninteso, non nel senso
che il depositario rimanga obbligato alla custodia, nel tempo posteriore all'annullamento del contratto e per tutta la durata di questo, normalmente determinata dalla unilaterale volontà del depositante (art. 1771): bensì nel senso che il comportamento del depositario anteriore all'annullamento, fermo il suo diritto di restituire la res deposita in esecuzione dell'annullamento medesimo o liberarsi diversamente nei modi di legge da ogni futura responsabilità, continuerà, malgrado l'annullamento, ad esser valutato in funzione dell'obbligo di custodia. Ed il richiamo del regime dei fatti illeciti non ne implica quindi l'applicabilità in toto, cioè anche per quanto concerne la valutazione del comportamento sotto il profilo della colpa extracontrattuale, ma solo per quanto concerne la rilevanza dell'incapacità del soggetto in termini di imputabilità per illecito. Cioè si risolve concretamente, quando il depositario sia in stato non, o non solo, di incapacità legale (che com'è noto non esclude l'imputabilità nè limita la responsabilità per illecito, ma, od anche, di incapacità naturale - che di regola dovrebbe inerire alla legale - nella limitazione della sua responsabilità ai sensi dell'art. 2047. Il depositario incapace, quindi, non è retroattivamente liberato dall'obbligo della custodia, e rimane esposto alle conseguenze dell'avvenuta violazione di esso; ma, se incapace di intendere o volere (e come tale non imputabile nemmeno per illecito: art. 2046), non è tenuto personalmente al risarcimento, ma soltanto a corrispondere l'equa indennità prevista dall'art. 2047 cpv., qualora il giudice ne ravvisi l'opportunità.
Se, invece, l'annullamento del contratto determinasse anche in questo caso, puramente e semplicemente, la valutabilità della situazione di fatto e del comportamento delle parti in base al regime dell'illecito (ed a tal fine, ripetesi, sarebbe superfluo l'espresso richiamo), l'incapace non avrebbe potuto considerarsi «responsabile della conservazione», poiché nessun obbligo di conservazione, da quella dizione necessariamente presupposto, incomberebbe su di esso, per il solo fatto della detenzione della cosa, ormai costituente, col venir meno del contratto, una circostanza meramente contingente e casuale. Certo, in base al regime dei fatti illeciti, egli potrebbe incontrare delle responsabilità circa rem, ma indubbiamente non nella misura ed in presenza dei soli estremi, in cui la incontra il titolare di un obbligo specifico di custodia; non si può considerare autore imputabile di un ingiusto danno altrui (art. 2043) chi, non essendovi obbligato, non prenda attivamente cura della conservazione di una cosa aliena.
Così individuato l'autonomo contenuto normativo della prima parte dell'articolo, si giustifica anche l'espressa menzione, nella seconda parte, di quel diritto di restituzione o rimborso, che indubbiamente costituisce applicazione del principio generale dell'arricchimento. L'espressa menzione risponde, infatti, allo scopo di togliere ogni dubbio sulla sussistenza di tale diritto, malgrado la speciale responsabilità sancita nella prima parte, come dimostra l'inciso «in ogni caso», e ciò non solo come opportuno chiarimento, ma perché effettivamente il carattere residuale dell'azione di arricchimento (art. 2042) avrebbe potuto fondatamente far dubitare che la norma della prima parte esaurisse il regolamento dei rapporti tra i contraenti, anche quando, ricorrendo gli estremi di applicazione degli art. 2045 e 2046, essa si risolverebbe in una attenuazione della responsabilità del depositario incapace, rispetto a quella che sarebbe derivata dai principi generali.
In termini pratici, quindi, il depositario incapace è sempre tenuto a restituire la cosa sussistente presso di lui, o a rimborsare quanto sia stato rivolto in suo vantaggio (per es. per l'alienazione della cosa); in più, egli è tenuto al risarcimento dei danni derivanti da alterazioni o deterioramenti della cosa, in quanto ne debba rispondere non come qualsiasi autore di un fatto illecito, ma come obbligato alla custodia; cioè alle stesse condizioni e nella stessa misura in cui ne risponderebbe come depositario, ex contractu, ma nei limiti, se sia naturalmente incapace, posti dall'art. 2047, poiché all'incapace di intendere e volere si ritiene evidentemente eccessivo addebitare tutte le conseguenze del mancato o inesatto adempimento dell'obbligo di conservazione, attesa l'incolpevole inettitudine o minor attitudine insita in tale stato psichico.
Quanto alla ratio iuris, cioè alla valutazione dell'opportunità della norma sul terreno economico-sociale, quest'aggravamento della posizione del depositario incapace, rispetto a quella normalmente determinata dall'annullamento del contratto, è giustificato dall'intento di tutelare l'interesse del depositante alla conservazione della cosa, considerato che egli, in ipotesi senza alcuna sua colpa, si è trovato, in seguito alla conclusione del deposito, nell'impossibilità di potervi provvedere personalmente. Negli effetti pratici, in ultima analisi, la norma in esame si risolve in una deroga alla retroattività dell'annullamento: non deve tuttavia, configurarsi in linea dogmatica come tale, poiché la responsabilità del depositario incapace per la conservazione della res deposita, malgrado l'annullamento del contratto, deve considerarsi pur sempre come responsabilità extracontrattuale, sia pur sorgendo in conseguenza di una situazione di fatto (detenzione) determinata dal contratto successivamente annullato, ed essendo disciplinata a certi effetti (estremi della colpa, onere della prova), come se avesse natura contrattuale.
La pertinenza al depositante del diritto di restituzione o rimborso, anche nel caso di annullamento per incapacità del depositante medesimo, deriva dal principio generale dell'arricchimento. L'espresso riconoscimento di tale diritto nella sola ipotesi inversa, in quanto giustificato dalle indicate particolari esigenze, non può provocare alcun dubbio al riguardo; come potrebbe invece legittimamente sorgere, se fosse inesatta l'interpretazione sostenuta nel numero precedente, in base alla regola «inclusio unius exclusio alterius».
Obblighi del depositante
Circa i diritti del depositario in seguito all'annullamento, nessun dubbio che, in base al principio dell'arricchimento, gli competa il diritto al rimborso delle spese fatte per la conservazione della cosa, ma solo nei limiti del vantaggio che ne ha ricavato il depositante, e quindi non necessariamente con la stessa estensione che ha tale diritto (art. 1781), come effetto contrattuale; viceversa non gli spetta il compenso eventualmente pattuito, e, se lo ha già riscosso, è soggetto all'azione di restituzione del depositante. Tuttavia, se l'annullamento è derivato da incapacità del depositario, sembra giusto ritenere che, correlativamente alla maggior responsabilità sancita dalla disposizione in esame, egli abbia diritto al compenso, sia pure ridotto proporzionalmente alla minor durata della custodia, ed alle spese di conservazione sostenute per l'adempimento dell'obbligo relativo, anche in eccedenza al limite suindicato, secondo una valutazione congrua al mantenimento dell'equilibrio economico fra le parti.