Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la condanna di un imputato per il reato di cui all’art. 570 cod. pen. (violazione degli obblighi di assistenza familiare) e di cui all’art. 612, comma 2, cod. pen. (minacce), in quanto questi aveva costretto la moglie e il figlio minore ad allontanarsi dalla casa familiare, facendo mancare loro i mezzi di sussistenza, portando via alla moglie il bancomat e licenziandola (essendo, l’imputato, oltre che il marito della persona offesa, anche il datore di lavoro).
L’imputato, inoltre, avrebbe minacciato di morte la moglie, “sia con il fucile che mimando il gesto del taglio della gola”.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello non avrebbe correttamente valutato la testimonianza resa dalla persona offesa, che avrebbe dovuto essere sorretta da altri riscontri.
Osservava il ricorrente, infatti, che dalla consulenza tecnica effettuata nel corso del giudizio di primo grado, era emersa “l'incoerenza del racconto della donna”, la quale avrebbe denunciato l’imputato per puro “spirito vendicativo”.
Secondo il ricorrente, inoltre, la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente tenuto in considerazione il fatto che era stato effettuato un versamento di 24.000 euro in favore della moglie e che la stessa si era allontanata volontariamente dalla casa coniugale.
La Corte di Cassazione riteneva di dover dar ragione, almeno in parte, all’imputato.
Precisava la Cassazione, in particolare, che la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato la propria decisione, ritenendo attendibili le dichiarazioni della persona offesa, “in quanto lineari, coerenti e persino documentate da conversazioni registrate dalla stessa”.
Le dichiarazioni della moglie, peraltro, erano state confermate anche dalla sorella, la quale aveva riferito “del tono minaccioso” con cui l’imputato aveva convinto la moglie ad andare via di casa.
Secondo la Cassazione, inoltre, la Corte d’appello aveva correttamente confermato la condanna dell’imputato per il reato di cui all’art. 570 cod. pen., dal momento che egli stesso aveva ammesso di non aver versato alla moglie l’assegno di mantenimento, pur avendo affermato di non averlo fatto per “sopravvenute difficoltà economiche” che, tuttavia, non erano state provate.
Precisava la Cassazione, sul punto, che l’incapacità economica dell’obbligato può giustificare il mancato versamento del mantenimento solo a condizione che si tratti di una incapacità “assoluta”, che si concreti in una “persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti”.
Nel caso in esame, invece, secondo la Cassazione, l’imputato non aveva assolutamente dimostrato “di versare in una situazione di assoluta ed incolpevole indigenza”.
Tuttavia, secondo la Cassazione, la causa doveva comunque essere rinviata alla Corte d’appello, in quanto la stessa non aveva tenuto in considerazione il fatto che l’imputato, per un certo periodo, aveva adempiuto al proprio obbligo di mantenimento.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione, pur confermando la colpevolezza del ricorrente, annullava la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè questa provvedesse a rideterminare la pena inflitta all’imputato, il quale, per un certo periodo, aveva correttamente adempiuto ai propri obblighi.