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Vendita di un bene viziato: se la sostituzione č eccessivamente onerosa č possibile agire per il risarcimento

Vendita di un bene viziato: se la sostituzione č eccessivamente onerosa č possibile agire per il risarcimento
Nella vendita di beni di consumo, l’applicazione del codice del consumo non preclude l’operatività dei rimedi generali del codice civile.
La vicenda ha avuto origine dalla domanda giudiziale proposta dal proprietario di un immobile nei confronti del titolare di una ditta individuale, per avergli quest’ultimo venduto delle perline di legno difettose che, dopo essere state messe in posa nell’orditura del tetto, si erano ristrette a causa della perdita di umidità.
In sede di ATP erano emersi dei vizi del materiale tali da portare la parte attrice a chiederne in via principale l’eliminazione e a domandare, in via subordinata, il risarcimento dei danni, consistenti nelle spese per il ripristino del tetto. Il venditore di era difeso chiamando a sua volta in giudizio il produttore del materiale.
Il tribunale aveva rigettato la domanda principale, in quanto l’eliminazione dei vizi sarebbe stata troppo onerosa per il venditore, ma accolto quella subordinata, condannando il convenuto al risarcimento dei danni. Veniva, inoltre, accolta la domanda di garanzia del venditore nei confronti del produttore del materiale viziato.
I soccombenti avevano così proposto appello, che è stato accolto. In primo luogo, secondo i giudici del gravame, la domanda (principale) di eliminazione dei vizi, che era stata rigettata in primo grado, non era più stata riproposta in sede di appello e pertanto si era ormai formato il giudicato in merito all’eccessiva onerosità di un ripristino.
In secondo luogo, il danno lamentato dall’attore era puramente estetico e non poteva consistere nella riparazione del tetto con sostituzione di tutte le perline (danno emergente), ma solamente nella chiusura delle fessure: non avendo formulato alcuna domanda in tal senso, la parte attrice veniva condannata al pagamento delle spese dei due giudizi.
Veniva perciò proposto ricorso presso la Corte di Cassazione, la quale si è espressa con la sentenza n. 1082/2020.
La disciplina della vendita di beni di consumo si trova attualmente nel Codice del Consumo, (D.Lgs. 206/2005), nel quale è confluito il d.lgs. 24/2002, attuativo della direttiva europea 44/1999. Tale disciplina si applica ai contratti di compravendita aventi ad oggetto beni di consumo (di cui all’art. 128 cod. cons) e nei quali l’acquirente riveste la qualità di consumatore.
All’art. 129 del codice del consumo è previsto che il venditore abbia l'obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita. I beni si presumono conformi al contratto quando sono idonei all’uso al quale sono destinati o a quello che intende farne l'acquirente, quando corrispondono alla descrizione fattane dal venditore, oppure quando presentano la qualità e le prestazioni abituali di beni dello stesso tipo.
Per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene, l’art. 130 del codice del consumo prevede che operi la garanzia a favore del compratore, la quale può sostanziarsi in: a) riparazione del bene; b) sostituzione del bene; c) riduzione del prezzo; d) risoluzione del contratto.
Se, però, il consumatore richiede la riparazione o la sostituzione del bene ma questi risultino eccessivamente onerosi per il venditore, quest’ultimo non è obbligato a provvedere (cosa che è avvenuta nel caso in esame).
L’art. 135 cod. cons. dispone, poi, che, per quanto non previsto dal Titolo III (“garanzia legale di conformità e garanzie commerciali per i beni di consumo”), si applicano le disposizioni del codice civile in tema di contratto di vendita. La possibilità di esperire tali rimedi concorrenti è perfettamente coerente con la ratio della direttiva comunitaria 44/1999, che ha inteso rafforzare la tutela del soggetto debole (consumatore), e non certo diminuirla; ed anzi, tramite questo rinvio si è inteso garantire all’acquirente uno standard di protezione più elevato rispetto a quello offerto dalla stessa direttiva.
Sulla base di queste premesse normative, la Corte di Cassazione ha rilevato che, nella compravendita, il compratore conserva il diritto di chiedere il risarcimento dei danni anche indipendentemente dalla richiesta di riduzione del prezzo o di risoluzione del contratto (art. 1494 c.c.). Di conseguenza, anche il compratore-consumatore deve avere questa facoltà, a maggior ragione quando altri rimedi, come la sostituzione o la riparazione del bene, non siano esperibili in quanto troppo onerosi.
L’accertamento dell’eccessiva onerosità, quindi, in forza del richiamo compiuto dall’art. 135 comma 2 cod. cons., non preclude al consumatore il diritto di chiedere il risarcimento del danno, sostanziantesi nella somma necessaria ad eliminare i vizi (in questo caso, tramite lo smantellamento del tetto).
Poiché, secondo quanto emerso, a fronte di quel particolare vizio del prodotto non sarebbero state possibili né la sostituzione, né la riparazione, perché comportanti un’eccessiva onerosità a carico del venditore, secondo la Suprema Corte, la tutela risarcitoria non si può limitare al danno non coperto dalla sostituzione, ma si devono applicare gli ordinari criteri previsti dal codice civile, che prevedono la possibilità di tale tutela anche in assenza di una richiesta di risoluzione o di riduzione del prezzo.
Oltretutto, la Cassazione, in tema di responsabilità civile, già aveva affermato che “la domanda con la quale un soggetto chieda il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, senza ulteriori specificazioni, si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta" (Cass. 20643/2016).
Per tali motivi, la Suprema Corte ha ritenuto che i giudici di secondo grado avessero errato a negare al consumatore qualsiasi risarcimento ed ha perciò cassato la sentenza, rinviando il tutto per una nuova valutazione.


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