Ebbene, la Suprema Corte si è espressa a favore della prevalenza degli accordi specifici raggiunti dai singoli professionisti con i clienti.
Gli Ermellini - in ossequio ad un consolidato orientamento (cfr., sul punto, Cass. n. 29212/2019) - hanno infatti espressamente affermato che l’elencazione, contenuta nel primo comma dell’art. 2233 c.c., dei criteri per la determinazione convenzionale del compenso ha carattere gerarchico.
Secondo la norma citata, quindi, per la definizione del compenso rileveranno, nell’ordine:
- la convenzione delle parti;
- le tariffe;
- gli usi;
- la determinazione del giudice.
È questo riguardo, è però opportuno precisare conclusivamente che – ai sensi del comma terzo dell’art. 2233 c.c. – i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali sono nulli se non redatti in forma scritta.
Il caso concretamente giunto all’attenzione della Corte, in particolare, riguardava una controversia avente ad oggetto la liquidazione del compenso di due avvocati per l’attività professionale da questi fornita. In particolare, i legali avevano presentato alla Corte d’appello la domanda di liquidazione basata su una specifica convenzione stipulata con il cliente, producendo appunto in giudizio il contratto di mandato da questo sottoscritto, dal quale emergeva chiaramente il compenso concordato.
La Corte distrettuale, tuttavia, aveva liquidato i compensi sulla base delle tariffe.
Avverso questo provvedimento, pertanto, gli avvocati avevano proposto ricorso, dolendosi – con esclusivo riferimento agli aspetti di diritto qui di rilievo – del mancato esame da parte dei giudici del merito dell’accordo stipulato con il cliente, che aveva acconsentito al pagamento di una parcella ben più corposa di quella liquidata.
Ritenendo il ricorso fondato, la Cassazione ha dunque chiarito i principi sopra riportati.