Per giungere a tale conclusione, in particolare, il Supremo Collegio ha ricordato che l’adozione legittimante è una extrema ratio cui si può pervenire solo nel caso in cui la conservazione del legame con i genitori biologici – anche mediante la possibilità dell’adozione c.d. mite, che non recide cioè del tutto il rapporto tra il figlio e la famiglia d’origine – non corrisponda all’interesse del minore, in ossequio agli artt. 8 Cedu, 30 Cost., 1 L. 184/1983 e 315 bis c.c..
Tanto premesso, la Corte afferma espressamente – ponendosi in linea di continuità con un orientamento già consolidato – che “il prioritario diritto dei minori a crescere nell’ambito della loro famiglia di origine non esclude la pronuncia della dichiarazione di adottabilità quando, nonostante l’impegno profuso dal genitore per superare le proprie difficoltà personali e genitoriali, permanga tuttavia la sua incapacità di elaborare un progetto di vita credibile per i figli e non risulti possibile prevedere con certezza l’adeguato recupero delle capacità genitoriali in tempi compatibili con l’esigenza dei minori di poter conseguire una equilibrata crescita psico-fisica”.
Il caso di specie, in particolare, riguardava la sfortunata vicenda di un minore che, all’esito di una relazione dei servizi sociali e dell’audizione della madre, era stato dichiarato in stato di adottabilità. Avverso tale pronuncia del Tribunale per i minorenni avevano proposto separatamente appello i genitori, ma la Corte distrettuale aveva ritenuto corretta la decisione di primo grado in quanto era stato dimostrato:
- che il minore aveva assistito per anni a reiterati maltrattamenti fisici all’interno dell’abitazione familiare posti in essere dal padre nei confronti della madre;
- che il padre non aveva dimostrato alcuna volontà di recupero ma aveva continuato ad abusare di alcolici e a sottrarsi ai percorsi del Serd;
- che anche la madre aveva abbandonato il figlio, lasciando che vivesse a lungo in un clima violento senza compiere alcuna iniziativa per offrirgli una vita accettabile e tornando più volte a vivere con il compagno insieme al figlio e che la stessa era poco consapevole dei danni arrecati al figlio e poco propensa a una funzione genitoriale responsabile;
- che il bambino aveva iniziato a vivere serenamente solo quando è stato inserito da solo in una casa-famiglia.
Nel dichiarare infondata tale censura, la Corte ha dunque espresso gli importanti principi su cui ci si è innanzi soffermati.