Segnatamente, l’imputato era stato condannato in entrambi i gradi di giudizio per il reato di atti persecutori avendo perpetrato nei confronti dei dipendenti della medesima società una serie di atteggiamenti denigratori, consistiti nella prospettazione di licenziamenti, minacce di pretestuosi addebiti disciplinari, istigazioni allo scontro fisico nonchè pubbliche mortificazioni integranti spesso il reato ex art. 595 del c.p.. Tali condotte provocavano nei dipendenti un forte e duraturo stato di ansia e di paura, tale da costringerle a modificare le proprie abitudini di vita per paura di incontrare nei corridoi dell'azienda il datore di lavoro. All'esito dei due gradi di giudizio, l'imputato proponeva ricorso per Cassazione lamentando nella parte che qui interessa il travisamento di una prova decisiva, ex art. 606 del c.p.p. comma 1, lett e) in quanto sosteneva che le iniziative attuate puntavano esclusivamente ad un aumento di produttività dell’azienda.
Tale censura è stata tuttavia correttamente disattesa dalla Cassazione. Secondo l’ormai granitico orientamento della giurisprudenza, infatti, mobbing, inteso come reiterata attuazione di condotte finalizzate ad isolare la vittima ed escluderla dall’ambiente di lavoro, integra il delitto di atti persecutori laddove produca uno stato di prostrazione psicologica che si manifesti con uno dei tre eventi tipizzati dall’art. 612 bis c.p: 1) un perdurante e grave stato di ansia e paura; 2) il fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone legate da relazioni affettive alla vittima; 3) l’alterazione delle abitudini di vita.
A tale uopo, la Corte di Cassazione, nel definire la fattispecie applicabile anche al c.d. “stalking occupazionale”, ha dichiarato che per la sussistenza del delitto di cui all’art. 612 bis c.p. è sufficiente il dolo generico nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Segnatamente, nel caso di specie, il ricorrente, avendo ripetutamente vessato le persone offese, minacciandole di “cementarle in un pilastro” ovvero più volte istigandole ad uno scontro fisico, sottoponendole a rimproveri mortificanti, aveva posto in essere comportamenti caratterizzati dalla consapevolezza di generare uno degli eventi di condizionamento psicologico indicati dall’art. 612 bis c.p. Secondo i giudici di legittimità, inoltre, nessun rilievo può essere riconosciuto al fatto che le condotte dell’imputato fossero finalizzate ad efficientare la società per renderla più competitiva nel mercato poiché tale obiettivo non può essere raggiunto attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti ed, in generale, mediante la commissione di delitti ai danni della persona dovendo la tutela dell’individuo in ogni caso prevalere sugli interessi economici.
In conclusione, alla luce del decisum in commento, il mobbing praticato sul luogo di lavoro configura il delitto di atti persecutori tutte le volte in cui le condotte reiterate nei confronti dei lavoratori si esplichino in comportamenti molesti idonei a provocare lo status di annichilimento psicologico delineato dall’art. 612 bis c.p.