Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, poi, la pena potrà essere aumentata.
La disposizione, nello specifico, trova il proprio fondamento nella necessità di garantire la reputazione dell'individuo, ossia l'onore inteso in senso soggettivo, quale considerazione che il mondo esterno ha del soggetto.
È altrettanto noto come nel nostro ordinamento sia fortemente sentita altresì l’esigenza di garantire la libertà di discussione e di difesa alle parti e ai loro difensori nell'ambito dei procedimenti contenziosi. Per tale ragione, infatti, il nostro Codice Penale contempla, all’ art. 598 c.p., una causa di esclusione della punibilità per le offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie. Non sono punibili, difatti, le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all'Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un'Autorità amministrativa, quando le offese concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo.
Ma tale causa di non punibilità si applica anche nel caso in cui le frasi lesive dell’altrui reputazione siano contenute in un atto rivolto all’ordine professionale di appartenenza della persona offesa nell’ambito di un procedimento disciplinare? La Corte di Cassazione, con sentenza n. 19496 del 18 maggio 2022, ha fornito risposta proprio a tale quesito, optando per la soluzione affermativa.
La Suprema Corte, segnatamente, richiama un consolidato indirizzo giurisprudenziale (cfr. ex multis, Cass. c.d. Ruggieri n. 39486/2018) per il quale l’esimente di cui all’art. 598 cod. pen. “non è applicabile agli esposti inviati al Consiglio dell’Ordine forense, in quanto l’autore dell’esposto non è parte nel successivo giudizio disciplinare e l’esimente di cui all’art. 598 cod. pen. attiene agli scritti difensivi in senso stretto, con esclusione di esposti e denunce.
Tanto chiarito, quindi, la Corte chiarisce che la causa di esclusione della punibilità deve invece essere applicata in caso di offese contenute non tanto in esposti quanto piuttosto in scritti difensivi presentati dalla parte del giudizio disciplinare.
Il caso concreto giunto all’attenzione della Corte, in particolare, riguardava un’avvocatessa imputata del reato di diffamazione per avere inoltrato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, in risposta ad un esposto presentato nei suoi confronti da un’altra avvocatessa controparte in un procedimento di separazione, vari documenti in cui accusava quest’ultima di aver commesso “gravissime violazioni” e “scorrettezze” e “stratagemmi” e di aver tenuto una condotta “lontana dalla decenza e dal buon gusto”.
Il Giudice di Pace, ritenendo le espressioni utilizzate lesive dell’onore della persona offesa, aveva quini condannato l’imputata.
Tale sentenza, successivamente, era stata confermata dal Tribunale quale giudice d’appello.
L’imputata, pertanto, aveva proposto ricorso innanzi alla Cassazione, denunciando violazione di legge per il mancato riconoscimento dell’esimente del diritto di critica difensiva contenuta in atti giudiziari. Nel ritenere tale ricorso fondatoalla luce della mancata qualificazione di uno degli atti “incriminati” come nota difensiva, la Cassazione ha dunque chiarito i principi sopra riportati.