Sull’argomento si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1819 del 2016, la quale ha fornito alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Corte, un soggetto, che aveva svolto un’attività di consulenza tecnica in favore del condominio, era stato condannato dal Giudice di Pace per il delitto di diffamazione di cui all’art. 595 del codice penale (che punisce la condotta di chi “comunicando con più persone offende l’altrui reputazione” e prevede come pena la reclusione fino ad un anno o la multa fino a Euro 1.032), in quanto, con una lettera rivolta all’amministratore e anche ai condomini, aveva dato del “mentecatto” all’amministratore stesso.
La sentenza veniva confermata in secondo grado dal Tribunale e, pertanto, il condomino proponeva ricorso per Cassazione.
Secondo l’imputato, infatti, il Tribunale, nel confermare la sentenza di condanna, si sarebbe “limitato ad affermare la valenza offensiva del termine “mentecatto”, senza valutare che tale espressione era stata vergata in risposta ad una lettera della persona offesa in cui si negava all’imputato, consulente tecnico del condominio, persino il rimborso delle spese vive sostenute”. Inoltre, secondo l’imputato, “si trattava di una risposta data nell’immediatezza, quando, ad alcuni mesi dal fatto, l’imputato aveva avuto contezza del verbale assembleare ed aveva ricevuto la lettera dell’amministratore”, con la conseguenza che poteva parlarsi di “provocazione” da parte dell’amministratore stesso.
Non solo, secondo l’imputato non si potrebbe in ogni caso parlare di “diffamazione”, in quanto la lettera era stata inviata all’amministratore e non era stata data la prova che la stessa fosse stata letta anche dagli altri condomini destinatari della medesima.
Il Tribunale non riteneva convincenti le argomentazioni svolte dall’imputato.
In particolare, osservava come fosse del tutto irrilevante che la lettera non fosse stata letta dagli altri condomini, dal momento che l’imputato, “non precisando che la missiva era “riservata personale”, era “pienamente consapevole del fatto che la stessa poteva essere posta a conoscenza anche di altre persone e che, comunque, sarebbe stata protocollata agli atti dell’amministrazione, a disposizione di chiunque vi potesse accedere”.
Inoltre, secondo il Tribunale non vi sarebbe stata alcuna “provocazione” da parte dell’amministratore, dal momento che l’imputato non aveva neppure prodotto la lettera cui egli “avrebbe dato seguito con la citata espressione offensiva, non consentendo quindi di valutarne il contenuto al fine di affermarne l’ingiustizia. Né ha provato o allegato gli elementi di prova da cui dovrebbe trarsi la conclusione che la risposta alla medesima da parte dell’imputato era stata immediata o le ragioni per cui lo stato d’ira si fosse, ragionevolmente, protratto per mesi”.
Alla luce di tutte queste considerazioni, dunque, anche la Corte di Cassazione ritiene di rigettare il ricorso proposto dall’imputato, confermando la sentenza di condanna resa dal Tribunale, il quale, del tutto correttamente, aveva ritenuto il soggetto colpevole del delitto di diffamazione, compiuto contro la persona dell’amministratore di condominio attraverso l’invio della comunicazione di cui sopra.