La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15646 del 14 aprile 2016, ha precisato che tale affermazione non può comportare la condanna per il reato di minaccia, di cui all’art. 612 codice penale.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Perugia, in riforma della sentenza resa dal Giudice di Pace di Assisi, aveva dichiarato un imputato colpevole del reato di minaccia, condannandolo alla pena di Euro 51 di multa e al risarcimento del danno morale patito dalla persona offesa, liquidati in Euro 800.
L’imputato proponeva, dunque, ricorso per Cassazione, il quale veniva ritenuto meritevole di accoglimento.
Secondo la Corte, infatti, l’espressione utilizzata dall’imputato ("ti restano pochi giorni"), doveva essere “correttamente contestualizzata”, come aveva fatto il giudice di primo grado, anche facendo riferimento “alle qualità personali dei soggetti coinvolti ed all'esistenza tra loro di meri dissapori per ordinarie questioni condominiali”.
Tale espressione, infatti, doveva considerarsi “priva di reale valenza diffamatoria, non potendo neppure escludersi che avesse finalità di mera suggestione, per ovvia possibilità di essere recepita come connotata da capacità iettatoria”.
Infatti, tale affermazione, che doveva considerarsi equivalente a “devi morire”, è, in astratto, “inidonea a configurare gli estremi della minaccia - alla stregua dei consolidato principio di diritto secondo cui, perché si perfezioni il delitto di minaccia, è necessario che l'agente prospetti un male ingiusto che, quand'anche non proveniente da lui, dipenda dalla sua volontà”.
La medesima, peraltro, “può assumere, nel particolare contesto in cui è stata pronunciata od in ragione di peculiari modalità della vicenda o della qualità delle persone coinvolte, il contenuto della minaccia, ove l'evento morte possa, plausibilmente e realisticamente, prospettarsi come riconducibile alla volontà dell'agente”.
In altri termini, secondo la Cassazione, espressioni del tipo “ti restano pochi giorni” o “devi morire”, possono integrare il reato di minaccia solamente nel caso in cui l’evento morte possa considerarsi effettivamente riconducibile alla volontà del soggetto che ha effettuato l’affermazione.
Deve essere quindi ragionevole pensare che il soggetto agente abbia, effettivamente, intenzione di cagionare la morte del soggetto passivo.
Nel caso di specie, tuttavia, quest’ultima eventualità doveva escludersi, con la conseguenza che la sentenza impugnata doveva essere annullata, in quanto “il fatto non sussiste”.