Nel caso esaminato dalla Corte, il Tribunale del riesame di Catania aveva riformato l’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari, disponendo la “misura del divieto di avvicinamento ai luoghi di dimora e di lavoro della persona offesa”, in relazione all’imputazione per il reato di “atti persecutori”, di cui all’art. 612 bis c.p.c.
L’imputato, ritenendo la misura ingiusta, proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, il quale, tuttavia, veniva rigettato.
Secondo la Corte, infatti, l’ordinanza del Tribunale del riesame, aveva “analiticamente ricostruito gli atti persecutori oggetto dell'imputazione provvisoria”, che consistevano in “appostamenti, telefonate, messaggi, minacce, nonché un'aggressione fisica”, in danno dell’ex amante dell’imputato.
Osserva la Corte, infatti, come tali atti avessero trovato conferma sia nelle dichiarazioni della persona offesa, che in quelle del marito di lei, di cui non vi era motivo di dubitare l’attendibilità, dal momento che, oltrettutto, era stata prodotta anche della documentazione “riproducente numerosi messaggi”, dai quali si poteva facilmente comprendere come la persona offesa “esortasse l'indagato a desistere dalle sue insistenti richieste”.
Inoltre, secondo la Cassazione, “la serie continua di telefonate, messaggi, frasi allusivamente minacciose divulgate attraverso vari mezzi di comunicazione, appostamenti (seguiti anche da ingiurie e, in un'occasione, da un ceffone)”, risultava “idonea a determinare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia e di paura, oltre che un fondato timore per la sua incolumità personale, costituendo un dato di comune esperienza che le minacce e le molestie, a lungo andare, possono trasmodare in atti di più grave impatto sulla persona”.
Di conseguenza, potevano ritenersi integrati tutti i presupposti richiesti dall’art. 612 bis codice penale, per la condanna per il reato di “atti persecutori” (o “stalking”), dal momento che tale norma richiede delle “condotte reiterate”, attraverso le quali un soggetto rechi “minaccia o molestia” a taluno, “in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Alla luce di tali circostanze, quindi, la Corte di Cassazione ritiene di dover confermare la decisione assunta dal Tribunale per il riesame, il quale, adeguatamente motivando il proprio ragionamento, aveva correttamente disposto la misura cautelare del “divieto di avvicinamento ai luoghi di dimora e di lavoro della persona offesa”.