La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata in seguito al giudizio proposto, contro il Ministero della Salute, dai congiunti di una paziente deceduta in conseguenza di un’epatopatia cronica, contratta in seguito a delle trasfusioni di sangue infetto, somministratele tra il 1982 e il 1990.
Il Ministero convenuto si costituiva in giudizio, eccependo la nullità della citazione, il proprio difetto di legittimazione passiva, nonché la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni e l’infondatezza, nel merito, della pretesa attorea.
Il Tribunale adito in primo grado riteneva prescritta la domanda di risarcimento del danno proposta iure successionis, osservando come, in ogni caso, la somma che sarebbe spettata in relazione all’invalidità permanente dell’avente diritto, sarebbe stata comunque inferiore o equivalente all’importo a cui gli eredi avevano diritto a titolo di indennizzo ai sensi della l. n. 210/1992. Allo stesso modo il giudice di prime cure escludeva anche il diritto degli attori ad ottenere il risarcimento del danno da perdita parentale, reputando non sussistente il nesso causale tra la patologia epatica della paziente ed il suo decesso, avendo considerato quale fattore causale autonomo le pregresse patologie di cui la stessa era affetta. Sempre secondo il Tribunale adito, inoltre, gli attori non avevano provato il fatto che la morte della congiunta avesse arrecato un pregiudizio al loro stato di salute, né che la stessa avesse comportato una diminuzione della loro sfera patrimoniale.
La suddetta decisione veniva, poi, confermata anche dalla Corte d’Appello, la quale escludeva la sussistenza di un nesso di causalità materiale tra le emotrasfusioni e l’evento morte, osservando, a tal proposito, come, dalle due consulenze tecniche d’ufficio espletate nel giudizio di primo grado, fosse emerso che, in relazione al decesso della paziente, avessero rivestito un ruolo preponderante le ulteriori patologie di cui la stessa era affetta. Al contrario, avrebbe avuto, invece, un ruolo di mera concausa la moderata patologia epatica contratta dalla donna a causa delle trasfusioni incriminate.
La Corte territoriale aveva, dunque, escluso il diritto attoreo al risarcimento sia del danno subito iure successionis a causa del decesso della congiunta, sia del danno non patrimoniale lamentato iure proprio, in conseguenza della malattia della donna.
I giudici di secondo grado ritenevano, infine, che il Tribunale avesse correttamente applicato il principio della compensazione tra il pregiudizio subito dalla danneggiata e l’indennizzo a cui essa aveva diritto ai sensi della l. n. 210/1992, applicabile anche d’ufficio dal giudice.
Di fronte a tale decisione gli attori ricorrevano dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando, innanzitutto, come la Corte d’Appello, nell’affermare che la pregressa situazione patologica della paziente e la diffusa emorragia cerebrale avessero costituito degli autonomi fattori causativi del suo decesso, avesse omesso di considerare le univoche risultanze emerse dalle due consulenze tecniche d'ufficio espletate nel corso del giudizio, da cui era risultato che la donna non sarebbe morta se non avesse presentato i problemi di coagulazione causati dall'epatite derivata dalle trasfusioni infette.
Secondo i ricorrenti, infatti, l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità avrebbe espressamente superato la regola dell’all or nothing, affermando il principio di diritto per cui “la causalità materiale tra illecito ed evento dannoso deve ritenersi sussistente a prescindere dall'esistenza ed entità delle pregresse situazioni patologiche aventi valore concausale”.
A parere dei congiunti della defunta, quindi, la sentenza impugnata sarebbe stata affetta da un vizio di motivazione, avendo omesso di considerare che le consulenze tecniche avevano accertato il fatto che non fosse stato possibile contenere l’emorragia, rivelatasi letale, proprio a causa dell’alterazione dei fattori coagulanti provocata dall’epatite contratta a seguito delle trasfusioni infette.
Con il secondo motivo di ricorso gli istanti eccepivano, poi, la violazione e falsa applicazione degli articoli 2043 e 2059 del c.c., lamentando il mancato riconoscimento del danno da essi subito iure proprio, considerato che, a loro avviso, il fatto illecito rappresentato dall’uccisione del congiunto, avendo colpito soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, avrebbe dato luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nelle conseguenze pregiudizievoli prodottesi sul rapporto parentale.
Con il terzo motivo di doglianza, i ricorrenti eccepivano, infine, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 del c.c. e degli articoli 1 e 2 della l. n. 210/1992, rilevando come l’orientamento che ravvisava un ingiustificato arricchimento nella cumulabilità del danno e dell’indennizzo ex l. n. 210/1992, fosse stato ormai superato dalla più recente giurisprudenza per cui l’indennizzo non potrebbe essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno, qualora non risultasse essere stato corrisposto.
La Suprema Corte ha accolto il primo ed il terzo motivo di ricorso, dichiarando assorbito il secondo e cassando, dunque, con rinvio la sentenza impugnata.
Quanto al primo motivo di doglianza, gli Ermellini hanno, innanzitutto, sottolineato come, in realtà, il loro consolidato orientamento confermi la perdurante valenza del principio dell’all or nothing in materia di rapporto di causalità materiale. Sulla base di tale principio, tuttavia, una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti si può instaurare soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una causa naturale non imputabile.
Ciò comporta che il nesso di causalità materiale tra illecito ed evento dannoso debba ritenersi sussistente a prescindere dall’esistenza ed entità delle pregresse situazioni patologiche aventi valore causale e, come tali, prive di efficacia interruttiva del rapporto eziologico ex art. 41 del c.p., ancorché eventualmente preponderanti. Tale rapporto di causalità non sussiste invece, qualora le cause naturali di valenza liberatoria dimostrino un’efficacia esclusiva nella verificazione dell’evento, ossia qualora il danneggiante dimostri l’assoluta non imputabilità a sé dell’evento dannoso.
Alla luce di ciò, come affermato dai ricorrenti, la motivazione dei giudici di merito risulta essere chiaramente contraddittoria, avendo aderito a delle consulenze tecniche che, oltre ad accertare il ruolo preponderante delle patologie pregresse in relazione al decesso della paziente, hanno anche riconosciuto un ruolo di concausa alla patologia epatica causata dalle trasfusioni di sangue infetto.
Quanto, poi, al terzo motivo di ricorso, nel ritenerlo parzialmente fondato, i giudici della Suprema Corte hanno evidenziato come, concordemente al loro costante orientamento, avallato anche dalle Sezioni Unite, la compensatio tra indennizzo e risarcimento debba ritenersi legittima, sempre che dagli atti emerga la prova che detto indennizzo sia stato effettivamente versato, ipotesi che, nel caso di specie, non si era verificata (cfr. Cass. Civ., SS.UU., n. 12564/2018; Cass. Civ., SS.UU., n. 576/2008).