La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 3981 del 21 settembre 2015, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Trieste, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato un soggetto per il reato di “diffamazione aggravata”, commesso in danno di un altro soggetto, mediante la pubblicazione su Facebook di un messaggio ritenuto offensivo della reputazione di quest’ultimo.
Ritenendo la decisione ingiusta, l’imputato aveva deciso di proporre ricorso per Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, infatti, non era stato dimostrato che il messaggio in questione fosse attribuibile all’imputato.
Osservava il ricorrente, inoltre, che la frase oggetto di contestazione non aveva, comunque, contenuto offensivo.
La Corte di Cassazione riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dall’imputato, accogliendo il relativo ricorso, in quanto fondato.
Evidenziava la Cassazione, in particolare, che, in primo grado, il Tribunale aveva assolto l’imputato, ritenendo che la frase pubblicata dall’imputato non avesse portata offensiva.
Tale valutazione era stata condivisa anche dalla Corte d’appello, la quale, tuttavia, aveva ritenuto che la frase avesse carattere diffamatorio per il contesto nel quale la stessa era stata pubblicata, vale a dire “una discussione telematica nel corso della quale altri partecipanti avevano in precedenza inviato messaggi contenenti (non meglio precisate) espressioni che al contrario dovevano considerarsi palesemente offensive”.
La Corte d’appello aveva, dunque, affermato la penale responsabilità dell’imputato, in quanto il medesimo avrebbe prestato “una volontaria adesione e consapevole condivisione” di tali espressioni offensive pubblicate da altri partecipanti alla discussione, “determinando la lesione della reputazione della persona offesa”.
Ebbene, secondo la Cassazione, tale conclusione della Corte d’appello non poteva essere condivisa, in quanto la stessa aveva, in sostanza, ritenuto che configurasse il reato di diffamazione “una condotta ritenuta intrinsecamente inoffensiva solo perchè la stessa dovrebbe considerarsi indirettamente e implicitamente adesiva a quella diffamatoria commessa in precedenza da altri”.
Secondo la Cassazione, tale ragionamento era errato, dal momento che, così facendo, si “finisce per negare qualsiasi effettività alla libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost.”.
Precisava la Cassazione, infatti, che era diritto dell’imputato manifestare un’opinione ostile nei confronti della presunta persona offesa e che egli, peraltro, aveva esercitato questo suo diritto “correttamente, senza ricorrere alle espressioni offensive utilizzate da altri, nè dimostrando di volerle amplificare attraverso il proprio comportamento”.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto dall’imputato, annullando la sentenza impugnata “perchè il fatto non sussiste”.