Tuttavia, anche la “rete” può diventare un mezzo usato allo scopo di arrecare offesa al prossimo.
Se la libera manifestazione di pensiero non solo è auspicata, ma anche protetta costituzionalmente, all'art. 21 Cost., l’insulto, spesso pesante, verso una persona che ne offenda la reputazione integra il reato di diffamazione.
L’art. 595 c.p. punisce, infatti, chi, comunicando con più persone, offende la stima di cui gode un individuo nella società in cui vive in un determinato contesto temporale.
La norma prevede, altresì, un’aggravante qualora l’offesa alla reputazione venga arrecata con la stampa o con altro mezzo di pubblicità, tra cui ben possono essere annoverati i “social network” in esame che consentono di raggiungere con una certa notizia un numero potenzialmente illimitato di destinatari.
Come sottolineato in giurisprudenza, la diffamazione rappresenta una fattispecie più grave della semplice ingiuria che oggi costituisce solo illecito civile, in quanto l’offesa riguarda una persona assente che, quindi, non può difendersi e può riferirsi alla stessa anche se non ne siano esplicitati nome e cognome, essendo sufficiente che ci siano quegli elementi che rendano identificabile, senza alcun dubbio, la vittima.
E’ opportuna, a questo punto, una breve precisazione. Se l’offesa viene scritta ad un altro soggetto a mezzo e-mail o messaggistica indirizzata solo a tale destinatario, al più si tratterà di ingiuria che, come detto, oggi non costituisce più reato e non ha quindi rilevanza penale.
Diversamente, qualora le frasi ingiuriose vengano scritte ("postate"), in riferimento ad una specifica persona, in un gruppo whatsapp, laddove risultano subito visibili da più soggetti, si può ritenere sussistente una vera e propria diffamazione.
In sintesi, bisogna stare molto attenti a come ci si esprime, se non si vuole essere raggiunti da una denuncia da parte del soggetto che si ritiene offeso a causa di determinate espressioni utilizzate nei suoi confronti.
Come ormai noto a tutti, anche su Facebook è possibile creare dei gruppi in cui si condividono certe passioni e argomenti e si scambiano contatti e impressioni. Tuttavia, anche in questo caso, la giurisprudenza ha evidenziato che occorre prestare attenzione alle frasi che si scrivono. Se, infatti, un messaggio che offende l’altrui reputazione viene comunicato anche a sole due persone, ugualmente si tratterà di reato di diffamazione.
Non rileva, quindi, che il gruppo sia particolarmente numeroso o meno, in quanto l'art. 595 fa riferimento solo alla comunicazione con “più” persone, senza specificare, in concreto, quante debbano essere.
Di recente, la Suprema Corte (Cass. n. 12761/2014) ha avuto modo di precisare che il fatto che il gruppo sia chiuso non implica per ciò solo che si tratti di un ambiente riservato, come tale, inidoneo, se del casso, a costituire il terreno su cui possano nascere vere e proprie ipotesi di diffamazione.
Per quanto riguarda l’amministratore del gruppo, la giurisprudenza ha sottolineato come una responsabilità in capo allo stesso sia configurabile solo se questi possa controllare il contenuto dei messaggi prima che gli stessi vengano visualizzati da tutto il gruppo.
In caso contrario, quindi, se gli utenti sono perfettamente liberi di scrivere ciò che vogliono e l’amministratore del gruppo visualizza il contenuto solo a messaggi già inviati, come tutti gli altri partecipanti al gruppo, non si potrà pretendere che vi sia per lui una responsabilità, per il solo fatto di essere l'amministratore.
Ultimo monito: è buona norma anche prestare attenzione ai “like” e alle condivisioni fatti sui commenti altrui.
Attenzione, dunque, per chi si sente una “hater” e per tutti coloro che, dietro lo schermo di un computer, pensano di porsi al riparo da ipotesi delittuose.