La questione sottoposta al vaglio degli Ermellini era nata in seguito alla condanna inflitta, in entrambi i gradi del giudizio di merito, ad una cittadina cinese, per il delitto di esercizio abusivo di una professione, ex art. 348 del c.p., per aver offerto ai bagnanti la somministrazione di massaggi con sostanze connotate da proprietà terapeutiche, analgesiche e antinfiammatorie, nonché per il reato contravvenzionale di cui al comma 3 dell’art. 6 del T.U. immigrazione, per non aver ottemperato, senza giustificato motivo, all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la sua regolare presenza nel territorio dello Stato, emesso nei suoi confronti dalle forze dell'ordine.
Secondo i giudici d’appello, in particolare, lo svolgimento di un’attività riconducibile alla professione medica da parte dell’imputata, era da considerare provato dal fatto che la stessa fosse stata osservata mentre passeggiava in spiaggia, indossando uno zaino su cui erano appesi dei fogli volti a pubblicizzare vari tipi di massaggio, con la specificazione della loro utilità a curare alcune patologie, nonché mentre si avvicinava ai bagnanti per offrire loro le proprie prestazioni. I Carabinieri dei N.A.S. intervenuti sul posto avevano, inoltre, accertato che nello zaino della donna c’erano delle bottiglie contenenti canfora, sostanza con note proprietà curative.
Di fronte alla conferma della condanna dell’imputata anche all’esito del giudizio di secondo grado, il Sostituto Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello adita ricorreva in Cassazione, chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato.
Si eccepiva, innanzitutto, la violazione e falsa applicazione dell’art. 348 del c.p., nonché la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione fornita dai giudici di merito in ordine alla ritenuta integrazione del reato di esercizio abusivo della professione medica. Veniva, infatti, evidenziato come non potesse ritenersi provato che l’imputata praticasse massaggi a scopo curativo, considerato che, da un lato, non può essere scambiato per un medico o un paramedico chi offra massaggi in spiaggia, e, dall’altro, la finalità terapeutica dei massaggi non può essere desunta dal mero utilizzo della canfora, laddove le sue generiche qualità terapeutiche non rendono di per sé professionale il suo impiego.
Il ricorrente eccepiva, altresì, una violazione e falsa applicazione della legge penale anche con riferimento al comma 3 dell’art. 6 del T.U. immigrazione, in quanto, a suo avviso, la Corte d’Appello aveva ritenuto erroneamente integrata tale fattispecie contravvenzionale, dal momento che l’imputata non si era rifiutata di esibire i propri documenti, ma si era soltanto limitata ad ottemperare in ritardo all’ordine di esibizione per averli dimenticati a casa, il che integrava chiaramente un giustificato motivo.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, giudicando fondati entrambi i motivi di doglianza.
Per quanto riguarda, innanzitutto, il delitto di esercizio abusivo della professione, la Cassazione ha precisato come esso sia finalizzato a tutelare il buon andamento della pubblica amministrazione, affinché sia garantito che l'esercizio di determinate attività professionali avvenga da parte di chi sia munito della necessaria competenza tecnica, verificata mediante il rilascio di una speciale attestazione di idoneità da parte dello Stato, oppure attraverso l'iscrizione in un albo professionale.
Si tratta, dunque, di un reato di pericolo presunto, risultando integrato a prescindere dal fatto che il soggetto non qualificato o non iscritto sia o meno munito della perizia necessaria per eseguire una determinata prestazione.
Affinché il delitto ex art. 348 del c.p. si possa considerare integrato è, però, necessario che il soggetto agente abbia posto in essere una condotta che rientri nell’ambito delle professioni protette da tale fattispecie, cioè di una professione il cui esercizio sia disciplinato dallo Stato e subordinato al conseguimento di una specifica abilitazione professionale, ossia all’iscrizione in appositi albi o elenchi.
Secondo gli Ermellini, tuttavia, nel caso de quo non sussistono i presupposti per affermare che l’imputata abbia esercitato un’attività effettivamente riconducibile ad una professione per la quale sia richiesta una speciale abilitazione dello Stato e, quindi, per ritenere integrato il delitto di cui all’art. 348 del c.p..
Considerato, infatti, che sotto la denominazione di "massaggio" possono risultare comprese svariate tipologie di manipolazione, l’esercizio abusivo della professione medica o paramedica si può configurare soltanto con riferimento alla pratica dei massaggi che abbiano una specifica finalità curativa, cioè di quelli che, stante la loro diretta incidenza sulla salute delle persone, richiedano specifiche e riscontrate competenze mediche, terapeutiche o fisioterapiche. Detto delitto non è, invece, ravvisabile in caso di manipolazioni che non abbiano una finalità propriamente terapeutica e non postulino, pertanto, una tecnica particolare, essendo volte a dispensare benessere, inteso in senso lato, e non, quindi, a curare una patologia o a lenirne gli effetti.
Su tali premesse i giudici di legittimità hanno escluso che, nel caso di specie, si possa considerare configurato il reato ex art. 348 del c.p., alla luce sia delle modalità con cui l’imputata ha somministrato i massaggi, sia del contesto in cui essi sono stati praticati, ossia su un asciugamano o un lettino in una spiaggia pubblica affollata di turisti. L’imputata, inoltre, nel proporre le proprie prestazioni, non faceva alcun riferimento a competenze particolari, né ad alcuna specifica abilitazione professionale, per cui le persone a cui si rivolgeva non avrebbero potuto trarre in alcun modo il convincimento che si trattasse di massaggi praticati in modo professionale, da una persona munita di una specifica qualifica sanitaria, né che gli stessi avessero una reale valenza terapeutica.
La supposta natura terapeutica dei massaggi praticati dall’imputata non si poteva, poi, desumere, neppure dall'utilizzo della canfora, trattandosi di un prodotto di libero acquisto, senza necessità di alcuna prescrizione medica. Senza contare che nemmeno le qualità asseritamente terapeutiche di un prodotto ne rendono automaticamente professionale l’utilizzo.
Parimenti fondato è stato giudicato il motivo di ricorso relativo alla condanna comminata all’imputata ai sensi del comma 3 dell’art. 6 del T.U. immigrazione. Secondo gli Ermellini, infatti, anche qualora si ritenesse che la prospettazione della dimenticanza a casa dei documenti non fosse idonea ad integrare il giustificato motivo, previsto dalla citata norma del Testo Unico sull’immigrazione, non poteva, comunque, essere trascurato il fatto che l’imputata avesse, in ogni caso, prodotto detti documenti presso la Caserma dei Carabinieri, ove era stata condotta per gli accertamenti in ordine alla sua identità. Tale circostanza aveva, difatti, avuto luogo nell’ambito di un contesto accertativo unitario o, comunque, in un lasso di tempo accettabilmente breve, senza soluzione di continuità e, dunque, nell’immediatezza del primo controllo avvenuto sulla spiaggia.
Orbene, proprio la verificazione di tale situazione, in ossequio alla costante giurisprudenza di legittimità, impedisce di ritenere integrata, nel caso di specie, l’inottemperanza sanzionata dalla fattispecie di cui all’art. 6 del T.U. immigrazione (cfr. Cass. Pen., n. 12511/2010; Cass. Pen., n. 47512/2007).