Nel caso di specie, il bambino era affetto da una grave malformazione cardiaca, la cui risoluzione richiedeva un intervento chirurgico, per il quale, molto probabilmente, sarebbero state necessarie trasfusioni di sangue. Per procedere all’operazione, tuttavia, l’ospedale necessitava del consenso dei genitori e questi ultimi subordinavano il rilascio dello stesso a condizioni ritenute inaccettabili, come ad esempio quella di trasfusioni solo da donatori non vaccinati contro il Covid-19.
Con l’ordinanza 2549/2025, gli Ermellini hanno statuito che, allorquando il consenso dei genitori sia subordinato a condizioni inaccettabili, l’ospedale può procedere all'intervento chirurgico necessario, a prescindere dall’assenso genitoriale.
L’assurda richiesta dei genitori del minore si fondava su due convinzioni fondamentali.
La prima riguardava la composizione del vaccino anticovid-19 e, in particolare, la presunta pericolosità della proteina spike contenuta nello stesso. La seconda motivazione aveva invece un fondamento religioso, poiché, secondo i genitori, i vaccini sarebbero realizzati utilizzando linee cellulari derivanti da feti abortiti.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dalla coppia contro la decisione del giudice tutelare, il quale aveva nominato quale curatore del minore il direttore generale dell’ospedale, fornendogli altresì l’autorizzazione a procedere con l’intervento chirurgico.
La struttura sanitaria ha giustificato la propria scelta di operare il minore in sede giudiziaria, dichiarando, in primo luogo, di attenersi ai protocolli medici che non consentono di accogliere le condizioni poste dai genitori del piccolo. La stessa, inoltre, ha affermato di conformarsi alle linee guida e alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa sulla donazione anonima e periodica. Per la Suprema Corte, pertanto, il rifiuto all’intervento si basava su una richiesta che non poteva essere soddisfatta in alcun modo, in quanto “esprimere il consenso a un trattamento sanitario ponendo una condizione non attuabile equivale a non esprimerlo”.
Secondo i giudici di legittimità, il giudice tutelare ha correttamente qualificato la richiesta dei genitori come irragionevole, avvalorando il prevalente parere della comunità scientifica in materia, secondo cui non esisterebbe alcuna differenza tra il sangue di soggetti vaccinati e quello appartenente a soggetti non vaccinati.
Gli ermellini precisano che “il paziente non può esigere che un trattamento sanitario venga effettuato in modo contrario alla deontologia professionale e ai protocolli sanitari esistenti, poiché questo interferisce con la sfera di autodeterminazione del medico. Il medico ha il dovere di seguire le migliori pratiche cliniche e i protocolli stabiliti per garantire la sicurezza e l'efficacia delle cure, anche contro la volontà condizionata del paziente o dei rappresentanti legali”.
Il giudice tutelare, al fine di risolvere il conflitto tra le posizioni dei genitori e quelle dei medici, ha individuato l'interesse supremo del minore in un'opzione che, in base alla letteratura scientifica disponibile e ai protocolli della struttura sanitaria scelta dai genitori, assicurava le migliori garanzie per la salute del bambino.
La Suprema Corte ha, inoltre, giudicato corretta e adeguata l’interpretazione del giudice tutelare in ordine alle obiezioni religiose sollevate dai genitori. I giudici di legittimità, infatti, precisano innanzitutto che non rientra tra le loro competenze quella di addentrarsi nella dottrina religiosa; tuttavia, ricordano che la Chiesa Cattolica condanna l’aborto volontario e, di conseguenza, anche la cosiddetta “cooperazione materiale passiva”. Secondo i ricorrenti, quest’ultima sarebbe riscontrabile nel fatto che alcuni vaccini sono prodotti utilizzando linee cellulari ottenute da feti abortiti. Da qui deriverebbe la convinzione che i cattolici non debbano ricorrere a tali vaccini.
Tuttavia, anche la Chiesa ha formulato delle eccezioni al riguardo. La nota della Congregazione per la dottrina della fede riguardante la moralità dei vaccini anti-Covid-19, citata dai ricorrenti, non richiama solamente il passaggio citato dai ricorrenti, ma specifica che “quando non sono disponibili vaccini contro il Covid-19 eticamente ineccepibili è moralmente accettabile utilizzare i vaccini anti-Covid-19 che hanno usato linee cellulari provenienti da feti abortiti nel loro processo di ricerca e produzione" e ancora che "la ragione fondamentale per considerare moralmente lecito l'uso di questi vaccini è che il tipo di cooperazione al male (cooperazione materiale passiva) dell'aborto procurato da cui provengono le medesime linee cellulari, da parte di chi utilizza i vaccini che ne derivano, è remota. Il dovere morale di evitare tale cooperazione materiale passiva non è vincolante se vi è un grave pericolo, come la diffusione, altrimenti incontenibile, di un agente patogeno grave”.
Ne consegue, secondo la pronuncia degli Ermellini, che se la stessa Chiesa considera “remota” la cooperazione insita nel vaccinarsi, ancora più remota deve essere considerata la cooperazione legata a trasfusioni di sangue quando non si ha certezza sullo stato vaccinale del donatore e sul tipo di vaccino ricevuto. Inoltre, va sottolineato che lo stesso Papa Francesco ha incoraggiato i fedeli a vaccinarsi contro il Covid.
La Suprema Corte, infine, si pronuncia anche in relazione alla tutela dell’identità della persona del minore. In particolare, i giudici statuiscono che i genitori ricorrenti commettono un errore giuridico allorquando fanno riferimento alla necessità di preservare l'identità religiosa del figlio. Essi, in questo modo, sovrappongono completamente la propria identità religiosa a quella del minore. L'identità di una persona è “l'insieme delle caratteristiche che rappresentano l'uomo nel suo progressivo divenire. Essa presenta profili genetici, giuridici, sociali e tutti concorrono nella costruzione progressiva e costante della personalità”.
La Cassazione al riguardo afferma che, sebbene i genitori siano i principali responsabili della formazione dell'identità del minore, in quanto hanno il dovere di prendersi cura ed educare il proprio figlio e trasmettono a quest'ultimo il loro patrimonio genetico, essi devono agire “nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”.
La Corte ha affermato che anche un bambino molto piccolo possiede delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni, ma – cosa ben più importante - ha enormi potenzialità di crescita, che potrebbe condurlo ad adottare scelte di vita (e quindi religiose) diverse da quelle dei propri genitori. Questi ultimi, dal canto loro, sono obbligati a rispettare le scelte del figlio, non essendo “accettabile che i genitori adottino decisioni per il minore in cui la loro fede religiosa sia assolutamente condizionante e prevalga in ogni caso sempre e comunque sugli altri interessi del minore”.
Il giudice, pertanto, deve sempre agire a tutela dell’interesse superiore dei minori, che funge come parametro nel delicato bilanciamento tra gli orientamenti religiosi dei genitori con i diritti e gli interessi del figlio minorenne, tra cui il diritto alla salute psico-fisica e a un processo di crescita armonioso.