La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26676 del 10 novembre 2017. si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di primo grado aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore (venditore di autovetture aziendali), “per scarso rendimento”.
Secondo la Corte d’appello, in particolare, nel caso di specie “non sussistevano gli estremi della negligenza inadempiente, tale da poter giustificare il licenziamento per scarso rendimento del dipendente”.
Osservava la Corte d’appello, nello specifico, che “per legittimare il licenziamento per scarso rendimento occorre che parte datoriale provi rigorosamente il comportamento negligente del lavoratore (…) e che l’inadeguatezza della prestazione resa non sia imputabile all’organizzazione del lavoro da parte dell’imprenditore e a fattori socio-ambientali”.
Ritenendo la decisione ingiusta, la società datrice di lavoro aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione alla società, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Evidenziava la Cassazione, in proposito, che la Corte d’appello aveva, del tutto adeguatamente, ritenuto che la società datrice di lavoro non avesse sufficientemente provato la gravità della condotta addebitata al lavoratore.
Secondo la Cassazione, infatti, “non risultava dimostrato (…) che il mancato raggiungimento dell’auspicato risultato produttivo fosse derivato da colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore” e non risultava nemmeno provato che “sussistesse un’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati per il dipendente e quanto effettivamente realizzato nel periodi di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando la ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.