La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21667 del 19 settembre 2017, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Cosenza, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento che era stato intimato ad un lavoratore dalla società datrice di lavoro.
Nello specifico, il lavoratore (autotrenista) era stato licenziato in quanto egli, durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia, aveva svolto un’altra attività di lavoro, incompatibile con la malattia stessa.
Ritenendo la decisione ingiusta, la società datrice di lavoro decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione alla società datrice di lavoro, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, in proposito, che “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia” è idoneo a giustificare il licenziamento “per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà” (artt. 1175 e 1375 c.c.), solo laddove tale attività esterna “sia per sè sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia”.
Evidenziava la Cassazione, inoltre, che “l'espletamento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia costituisce illecito disciplinare non solo se da tale comportamento derivi un'effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente”.
Ebbene, nel caso di specie, la Cassazione osservava che la Corte d’appello aveva, del tutto adeguatamente, escluso la rilevanza disciplinare dello svolgimento dell’attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia del lavoratore in questione, ritenendo che lo svolgimento di tale attività non fosse indicativa della “simulazione della malattia diagnosticata dai sanitari dell'INAIL”.
Secondo la Cassazione, dunque, lo svolgimento di attività lavorativa da parte del lavoratore durante il periodo di assenza di malattia non aveva comportato la “violazione di buona fede e correttezza e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà”, in quanto la stessa non aveva evidenziato la simulazione della malattia nè ne aveva ritardato la guarigione.
Dagli accertamenti effettuati in corso di causa, infatti, era emerso che il lavoratore non aveva svolto nessuna attività particolarmente faticosa o pericolosa, che potesse pregiudicare la sua pronta guarigione.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte d’appello rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando la ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.