Il
Tribunale di Modena sezione lavoro, con la recente
sentenza del 23 maggio 2019 ha illustrato la natura del patto di non
concorrenza, definendone in particolare i requisiti di validità ed efficacia.
Più nello specifico, i giudici si sono occupati della legittimità, a fronte della stipulazione di tale patto, di un
corrispettivo il quale appaia del tutto incongruo e comunque sproporzionato rispetto all’oggetto della
prestazione da adempiere.
Il patto di non concorrenza, disciplinato dall’art.
2125, è un accordo piuttosto restrittivo della libertà professionale del lavoratore, in quanto è finalizzato a contemperare due interessi antitetici: da una parte, quello del
datore di lavoro che desidera conservare intatto il proprio
patrimonio conoscitivo, c.d. know-how, il quale è stato nel tempo acquisito dal lavoratore; dall’altra, la legittima volontà del lavoratore di non subire un pregiudizio eccessivo della sua
libertà di ottenere una crescita professionale mediante l’impiego in un posto di lavoro che eserciti attività simili a quelle dell’azienda precedente.
L’articolo 2151 c.c. prevede, a proposito dei limiti di validità del patto di non concorrenza, che “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del
prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo”.
Si comprende quindi come tale patto debba osservare, ai fini della tutela del lavoratore, tutta una serie di limiti di forma e di sostanza. Tra questi ultimi rientra, in particolare, la pattuizione di un corrispettivo a favore del lavoratore, che renda quindi questo accordo di carattere corrispettivo e sinallagmatico, senza generare eccessivi squilibri in capo all’uno o all’altro dei contraenti.
Il Tribunale, con la sentenza in oggetto, si è in particolare soffermato sulla natura e sull’entità del corrispettivo da erogare al lavoratore a fronte della richiesta di limitare la propria ascesa lavorativa e professionale al fine di tutelare gli interessi dell’
azienda da cui si separa.
Innanzitutto i giudici, conformandosi alla giurisprudenza prevalente, affermano come siano illegittime quelle clausole, quali le clausole d’opzione o di
recesso, che consentono al datore di lavoro di sottrarsi dall’accordo, senza quindi doversi ritenere obbligato alla corresponsione del corrispettivo inizialmente pattuito.
In secondo luogo, non è stata ritenuta legittima nemmeno la configurazione di un compenso per il lavoratore di carattere
meramente simbolico oppure iniquo, incongruo o comunque inadeguato rispetto all’oggetto dell’accordo. Senza poter fare affidamento su indici certi di carattere normativo, la giurisprudenza ha da tempo stabilito che un corrispettivo congruo debba assestarsi, generalmente, tra il 15% e il 35% della
retribuzione.
Infine, i giudici hanno stabilito come non possa apparire legittimo un corrispettivo indeterminato, ovvero non stabilito fin dall’inizio nel suo preciso ammontare, ma erogato in costanza del rapporto di lavoro, a mo’ di corrispettivo mensile. Tale pattuizione contrasterebbe con l’art. 2125 c.c. poiché, nel momento della conclusione del patto, l'ammontare del corrispettivo risulterebbe del tutto imprevedibile, poiché correlato ad una circostanza di fatto incerta: la durata del rapporto di lavoro.