Potrebbe, infatti, ritenersi che il coniuge o il partner lavorino in favore del compagno animati dal solo scopo di aiutarlo nella propria mansione, senza alcuna finalità di guadagno.
Ebbene, se ciò può essere vero in alcuni casi, vi possono essere anche delle situazioni diverse, con la conseguenza che il solo fatto di avere una relazione sentimentale con il proprio “datore di lavoro” non esclude il diritto alla retribuzione del compagno-lavoratore.
Come distinguere le varie ipotesi, dunque?
Sull’argomento si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione, che, con la sentenza n. 19304 del 29 settembre 2015, ha fornito alcune interessanti precisazioni in proposito.
In particolare, secondo la Corte, il fatto di svolgere l’attività lavorativa in favore del coniuge e in ragione del rapporto affettivo sussistente con il medesimo, non comporta necessariamente che il soggetto in questione abbia voluto svolgerla a titolo gratuito.
Osserva la Cassazione, infatti, come “ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso”, con la conseguenza che presuppone il diritto alla retribuzione.
Tale attività lavorativa “può tuttavia essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito "affectionis vel benevolentiae causa", caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa”.
Di conseguenza, sarà possibile affermare che il coniuge svolge l’attività a titolo gratuito, senza diritto, dunque, alla retribuzione, solo se viene fornita la prova che il coniuge stesso non svolge l’attività stessa a scopo di lucro ma al solo scopo di essere d’ausilio al proprio partner.
Ciò in quanto, precisa la Corte, “l’attività lavorativa e di assistenza svolta all’interno di un contesto familiare in favore del convivente more uxorio trova di regola la sua causa nei vincoli di fatto di solidarietà ed affettività esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato: non potendosi escludere che talvolta le prestazioni svolte possano trovare titolo in un rapporto di lavoro subordinato, del quale deve essere fornita prova rigorosa (Cass. 15 marzo 2006, n. 5632)”.
In altri termini, ciò significa che non sempre il fatto che la prestazione sia svolta dal convivente comporta che la prestazione debba considerarsi svolta a titolo gratuito, dovendosi fornire la prova che l’attività lavorativa non viene svolta con scopo di lucro ma solo ed esclusivamente in ragione della relazione affettiva sussistente tra i soggetti stessi.
Nel caso di specie, la Corte osserva come fosse incontestabile che si fosse in presenza di un rapporto di prestazione lavorativa svolta in costanza di una relazione affettiva tra le parti, dal momento che dall’istruttoria effettuata era emerso un “consistente apporto lavorativo” della compagna nell’attività del partner.
Tuttavia, secondo la Cassazione
- poiché la donna aveva negato che il rapporto col compagno fosse “mai sfociato in una effettiva e costante convivenza sotto un medesimo tetto”
- e che essa avesse “mai ottenuto alcun altro tipo di vantaggio economico dal rapporto affettivo…
- né… mai partecipato agli utili della gestione del patrimonio immobiliare” del compagno
- “non intervenendo, quindi, alcuna comunanza di interessi sul piano economico o patrimoniale”