Nel caso esaminato dalla Corte, il Tribunale di Salerno, con sentenza confermata anche in secondo grado, aveva rigettato la domanda di un dipendente volta ad ottenere la condanna dell'Agenzia delle Entrate, presso la quale era impiegato, per aver corrisposto buoni pasto non spendibili nè all'interno dell'esercizio commerciale presente in azienda, nè in strutture limitrofe.
Secondo la Corte d'Appello, pronunciatasi nel secondo grado di giudizio, in particolare, la domanda non andava accolta in quanto i buoni pasto "non hanno natura retributiva ma hanno carattere assistenziale", con la conseguenza che le relative erogazioni sono escluse dalla base imponibile per il computo dei contributi.
Inoltre, in base a quanto previsto dal contratto collettivo applicabile nel caso di specie, i buoni pasto non potevano in alcun modo essere sostituiti dalla corresponsione del l'equivalente in denaro.
Giunti al terzo grado di giudizio, la Corte di Cassazione riteneva, invece, di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente.
In particolare, secondo la Corte, il ricorrente, già in primo e secondo grado, aveva precisato "di essere stato costretto a restituire i buoni pasto ricevuti perché non venivano accettati nè dalla mensa interna nè da alcun esercizio commerciale sito nelle immediate vicinanze dell'ufficio o comunque raggiungibile da parte dell'interessato".
Nel caso di specie, peraltro, il lavoratore era non vedente, il che determinava una forte limitazione delle sue capacità di spostamento.
Osserva la Cassazione come, invece, la Corte d'appello non avesse in alcun modo considerato questa censura, "limitandosi a ribadire che i buoni pasto non hanno natura retributiva", non valutando "la pretesa azionata nel suo reale contenuto".
Secondo la Cassazione, dunque, il ricorso andava accolto.
Il Giudice, infatti, è tenuto a pronunciarsi in base a quello che è il contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, "come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, eventualmente prendendo in considerazione domande non espresse che possono ritenersi implicitamente formulate", purché siano in rapporto di connessione con l'oggetto della domanda è sempre con rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
La sentenza di secondo grado, di conseguenza, appariva viziata, non avendo tenuto conto del contenuto sostanziale della domanda proposta.
Appariva, infatti, evidente, che "la censura fondamentale proposta dal lavoratore, non era quella di ottenere la sostituzione dell'attribuzione del buono pasto con la corresponsione dell'equivalente in denaro, ma piuttosto era quella di ottenere un risarcimento - che, infatti, non è stato richiesto con commisurazione al valore dei buoni pasto non utilizzati e restituiti - per essere stato danneggiato dalla corresponsione da parte dell'agenzia, di buoni posto che (...) non erano spendibili, in considerazione della sua condizione di persona non vedente, che ne limita la capacità di spostamento".
Precisa la corte, inoltre, che “il buono pasto è un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi in cui l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio”.
In proposito, secondo la Cassazione, “la garanzia del benessere fisico del lavoratore comporta di per sé la tutela della salute del lavoratore stesso e a maggior ragione della sua disabilità, tanto più in considerazione del carattere sostanzialmente assistenziale della relativa prestazione”.
Nel caso di specie, invece, al ricorrente erano stati attribuiti “buoni pasto che – proprio a causa della sua situazione di disabilità che non gli consentiva di raggiungere (oltretutto del tempo limitato della pausa) gli esercizi commerciali nei quali accettavano i buoni stessi – di fatto non erano utilizzabili da parte del destinatario così da costringere il dipendente (dopo avere inutilmente rappresentato la situazione alla datrice di lavoro) a restituire i buoni e a provvedere ai pasti a proprie spese”.
Pertanto, il ricorso proposto doveva essere accolto, in quanto fondato.
Conseguentemente, la Cassazione annullava la sentenza impugnata e rinviava la causa alla Corte d’Appello, affinchè la medesima decidesse in base ai principi sopra enunciati.