Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte di Appello di Torino, aveva condannato un’imputata per il suddetto reato, in quanto la stessa aveva cagionato la morte di un soggetto, urtando con il proprio motociclo l’autovettura della vittima.
Nello specifico, in primo grado l’imputata era stata ritenuta colpevole per “negligenza, imprudenza e imperizia”, “per non avere rispettato le prescrizioni della segnaletica verticale violando il segnale di "direzione obbligatoria dritta" effettuando una svolta a sinistra”, per “non avere rispettato la segnaletica orizzontale effettuando una svolta a sinistra nonostante la presenza di linea di mezzeria bianca continua” e per “avere eseguito una manovra di svolta a sinistra senza assicurarsi di poterlo fare in modo da non creare intralcio o pericolo per altri utenti della strada”.
In secondo grado, tuttavia, la Corte d’appello aveva ridotto la pena comminata all’imputata, riconoscendole le circostanze attenuanti (art. 62 cod. pen.) e rigettando le domande risarcitorie presentate dalle parti civili (zii della vittima del sinistro).
Di conseguenza, le parti civili decidevano di proporre ricorso per Cassazione, evidenziando come la Corte d’appello avesse errato nell’escludere il risarcimento del danno agli zii della vittima.
Secondo i ricorrenti, infatti, la Corte avrebbe dovuto loro riconoscere il risarcimento del “danno parentale”, tenuto conto del fatto che gli zii si occupavano del nipote e avevano con lo stesso un particolare rapporto affettivo.
I ricorrenti, a sostegno delle proprie ragioni, ricordavano, inoltre, come la stessa Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 26972/2008, avesse spiegato “il concetto di danno non patrimoniale, comprensivo del danno morale permanente o temporaneo”, con la conseguenza che “in presenza di un saldo e duraturo legame affettivo sarebbe proprio la lesione che colpisce tale situazione affettiva a connotare l'ingiustizia del danno e a renderne risarcibili le conseguenze pregiudizievoli, a prescindere dall'esistenza di rapporti di parentela e affinità giuridicamente rilevanti come tali. Pertanto il riconoscimento del diritto al risarcimento sarebbe stato corretto”.
Secondo i ricorrenti, infine, “la sentenza impugnata avrebbe erroneamente considerato il parametro della convivenza quale principale elemento di valutazione, ancorandolo alla definizione di coabitazione, mentre in realtà i ricorrenti avrebbero fornito la prova dell'esistenza e della durata del rapporto stabile e continuativo nel tempo, come documentato dallo stato di famiglia che attestava la convivenza con lo zio ed il contenuto dei messaggi sms e Facebook che testimoniavano il legame affettivo”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dai ricorrenti, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’appello avrebbe correttamente escluso il risarcimento, dal momento che “l'art. 74 c.p.p., stabilisce che l'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno, di cui all'art. 185 c.p., può essere esercitata nel processo penale nei confronti dell'imputato e del responsabile civile dal soggetto al quale il reato ha recato danno, ovvero dai suoi successori universali”.
Secondo la Cassazione, dunque, “tale norma distingue il diritto al risarcimento "iure proprio", che è il diritto del soggetto al quale il reato ha direttamente recato danno, dal diritto al risarcimento "iure successionis", che spetta solo ai successori universali e che sorge quando si sia verificato un depauperamento del patrimonio della vittima in conseguenza dell'accadimento”.
Di conseguenza, “i successibili, che non siano, in concreto, anche eredi, non possono agire "iure successionis", non escludendosi però, per i successibili che siano prossimi congiunti della vittima, la legittimazione ad agire "iure proprio" per il ristoro dei danni patrimoniali e, soprattutto, non patrimoniali sofferti”.
Nel caso di specie, tuttavia, secondo la Corte, mancava “la prova della presenza di quel saldo e duraturo legame affettivo alla cui esistenza le stesse Sezioni Unite civili ancorano la possibile lesione atta a connotare l'ingiustizia del danno e a renderne risarcibili le conseguenze pregiudizievoli, a prescindere dall'esistenza di rapporti di parentela e affinità giuridicamente rilevanti come tali”.
Evidenziava la Cassazione, infatti, che “non possono essere certo dei messaggi sms o rapporti intrattenuti sul social forum Facebook a poter far dire provata la sussistenza di tale legame”, essendo “esperienza comune” che, soprattutto i giovani, abbiano “centinaia e centinaia di "amici" Facebook, con molti dei quali intrattengono rapporti meramente virtuali che, evidentemente, nulla hanno a che vedere con i concetti di "amicizia" e di stabile rapporto affettivo”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalle parti civili, condannando le medesime al pagamento delle spese processuali.