La domanda che possiamo porci in relazione al caso che andremo ad esaminare è questa: un lavoratore può essere licenziato solo perché ha un brutto carattere?
Stando a quanto affermato dalla Corte di Cassazione sembrerebbe proprio di no.
Infatti, secondo i giudici di terzo grado, il Tribunale di Bergamo aveva accolto l’impugnativa proposta dal lavoratore, ritenendo che non sussistesse il requisito della giusta causa di licenziamento, allegata dalla società datrice di lavoro come motivazione del provvedimento espulsivo.
Di conseguenza, la società proponeva reclamo contro tale sentenza, osservando come le testimonianze assunte avessero “confermato un atteggiamento del lavoratore litigioso e offensivo nei confronti dei colleghi che avrebbe dovuto provvedere a formare nelle mansioni”.
Inoltre, la società datrice di lavoro evidenziava come il licenziamento fosse stato motivato principalmente “dal persistente rifiuto da parte del lavoratore di valutare le proposte formulate dalla società per mantenere in vita il rapporto di lavoro, che avevano, viceversa, portato il lavoratore addirittura ad accusare l’azienda di demansionamento e mobbing”. Pertanto, anche a seguito di tali accuse, “il rapporto fiduciario con il lavoratore si era definitivamente spezzato e pertanto il licenziamento era divenuto ineludibile”.
La Corte d’appello di Brescia, tuttavia, non riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dalla società, confermando la sentenza di primo grado, salva la rideterminazione delle somme dovuto a titolo di risarcimento del danno.
La società condannata, ritenendo la sentenza ingiusta, proponeva, ricorso in Cassazione, che veniva rigettato.
Secondo la Corte, i giudici di appello avevano “accertato che le contestazioni mosse al lavoratore si sostanziavano in modi pretesamente maleducati nei rapporti con il personale che egli aveva il compito di formare; nel rifiuto del lavoratore di procedere alla negoziazione del superminimo; nella doglianza, rivolta all’azienda, di essere stato demansionato”.
La Corte d’appello aveva accertato, altresì, la “non illiceità dei fatti addebitati”, con la conseguenza che i medesimi non potevano essere posti alla base del licenziamento.
In sostanza, poiché i comportamenti addebitati dal lavoratore non erano illeciti, non si poteva ritenere che i medesimi integrassero la “giusta causa” che legittima il licenziamento, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, confermando la sentenza di secondo grado.