La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3978 del 19 febbraio 2018, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha visto come protagonisti i famigliari di un lavoratore deceduto nell’esercizio della propria attività lavorativa, i quali avevano agito in giudizio nei confronti del Comune datore di lavoro, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito della morte del loro congiunto.
La domanda risarcitoria era stata accolta sia in primo che in secondo grado, con la conseguenza che il Comune aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Nello specifico, la Corte d’appello, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva ritenuto che le testimonianze raccolte in corso di causa avessero chiarito che il lavoratore in questione era in precarie condizioni di salute, che le stesse erano certificate e che, ciononostante, egli era stato adibito all’attività di netturbino, senza limitazioni, venendo sottoposto “agli sforzi e alle condizioni climatiche che detta attività comporta, subendo malori ricorrenti e altresì svenimenti durante il lavoro”.
La Corte di Cassazione riteneva di dover aderire alle considerazioni svolte dal giudice di secondo grado, rigettando il ricorso proposto dal Comune, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che il Comune aveva il “fondamentale dovere di prevenzione”, di cui all’art. 2087 c.c., in virtù del quale il datore di lavoro è tenuto a “controllare che il lavoratore, nell’esercizio dell’attività, osservi le prescrizioni datoriali concernenti l’esecuzione della prestazione in condizioni di sicurezza”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal Comune datore di lavoro, confermando integralmente la sentenza impugnata.