Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello, in conferma della sentenza di primo grado, aveva condannato un marito per tale reato, commesso in danno della moglie, alla quale, per gelosia, “imponeva, brandendo le forbici, di subire il taglio dei capelli”.
Ritenendo la sentenza ingiusta, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando come la condotta potesse integrare, al più, la fattispecie dell’ingiuria (art. 594 del c.p., ora depenalizzato) o delle minacce (art. 612 del c.p.).
Evidenziava il ricorrente, peraltro, come le minacce, realizzate brandendo le forbici, “non fossero finalizzate al taglio dei capelli ma solo al conseguimento di chiarimenti su quello che l’imputato riteneva essere stato un tradimento da parte della moglie”.
L’imputato rilevava, inoltre, di aver effettivamente operato il taglio dei capelli, ma solo “per aiutare la moglie che ciò intendeva provvedere autonomamente”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Infatti, la Corte evidenziava come i giudici in appello avessero “dato atto, con dovizia di particolari, della ricostruzione della vicenda, narrata dalla persona offesa col conforto delle dichiarazioni di ulteriori testi, a proposito della condotta dell’imputato consistita nel minacciarla con le forbici e nell’imporle, per gelosia, il taglio dei capelli”.
Di conseguenza, secondo la Cassazione, tale condotta era stata, del tutto correttamente, ritenuta integrare la fattispecie di cui all’art. 610 del c.p., che punisce, a differenza dell’ingiuria, “non il mero atto di umiliazione della persona offesa, ma quello posto in essere facendo ricorso alla violenza o alla minaccia ed estrinsecatosi nella imposizione di un comportamento o di una omissione in violazione della libertà morale”.
Precisava la Corte, inoltre, come tale reato si distingua, altresì, da quello di “minacce”, che rappresenta un illecito più ampio, dal momento che il delitto di “violenza privata” punisce non già la “mera prospettazione di un male ingiusto” ma “la utilizzazione di tale prospettazione per costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto, confermando la sentenza resa dal giudice di secondo grado e condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali.