Nello specifico, quand’è che le dimissioni rassegnate dal lavoratore possono considerate “estorte” con violenza?
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Ancona aveva confermato la sentenza di primo grado, con cui il Tribunale della stessa città aveva rigettato la domanda di “annullamento per violenza o dolo” delle dimissioni rassegnate da un lavoratore dipendente di un negozio di abbigliamento.
Il dipendente, in particolare, aveva agito in giudizio per ottenere l’annullamento delle dimissioni in quanto le stesse gli sarebbero state estorte dal datore di lavoro, il quale, dopo l’applicazione di due sanzioni disciplinari, l’aveva minacciato di licenziamento se non si fosse dimesso immediatamente, accettando lo scioglimento del rapporto a fronte del pagamento di un incentivo di Euro 10.000,00.
I giudici di primo e secondo grado, tuttavia, non avevano ritenuto di poter dar ragione al lavoratore, osservando che questi non aveva contestato gli inadempimenti che avevano giustificato le sanzioni disciplinari e che dovevano ritenersi tali da giustificare il licenziamento per giusta causa (art. 2119 c.c.).
Secondo i giudici, inoltre, “non era ravvisabile alcuna violenza morale” da parte del datore di lavoro, il quale non aveva in alcun modo “estorto” il consenso del lavoratore a rassegnare le dimissioni.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Nemmeno la Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal lavoratore, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato la propria decisione, ritenendo che gli inadempimenti, non contestati dal lavoratore, fossero tali da non consentire il proseguimento del rapporto di lavoro.
Evidenziava la Cassazione, inoltre, che, l’annullamento delle dimissioni del lavoratore presuppone che le stesse siano state rassegnate a seguito della minaccia di un “male ingiusto di per sé”, non essendo sufficiente la semplice minaccia di far valere un diritto.
Ebbene, nel caso di specie, poiché il datore di lavoro non aveva minacciato alcun “male ingiusto” al lavoratore che non si fosse licenziato e poiché il lavoratore stesso non aveva contestato gli inadempimenti che erano stati posti alla base delle precedenti sanzioni disciplinari, le dimissioni, secondo la Corte, erano perfettamente valide ed efficaci e non potevano essere annullate.
Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, confermando integralmente la sentenza resa dalla Corte d’appello e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.