La norma in esame costituisce un corollario dell'articolo
1 che attribuisce la
sovranità al popolo.
Il primo principio che emerge è quella della
rappresentanza nazionale, secondo il quale i parlamentari sono svincolati dall'influenza dei propri elettori nell'ambito dei collegi elettorali locali. Ciò non impedisce chiaramente che i parlamentari possano prendere in considerazione gli interessi locali, ma tuttavia impone che in via principale siano considerati quelli nazionali e generali.
Il secondo principio scaturente è quello del
divieto di mandato imperativo. Il singolo parlamentare, una volta eletto, non rappresenta gli elettori e, quindi, non agisce quale loro
mandatario, essendo egli piuttosto libero di compiere le scelte (spiccatamente, di appoggiare o meno l'azione di
Governo) che ritiene più opportune. Ciò significa che egli non può essere chiamato a rispondere civilmente delle proprie decisioni ma non significa che, in qualche modo, queste non possano avere riflessi nei suoi confronti.
Ed, infatti, innanzitutto esiste comunque una
responsabilità c.d. politica: ogni parlamentare dovrà rispondere delle proprie scelte quando, in sede di nuove elezioni, il corpo elettorale deciderà se eleggerlo nuovamente o meno.
In secondo luogo, molto spesso ogni membro delle
Camere è tenuto ad attenersi strettamente alla
linea del partito di appartenenza, per cui la sua libertà di azione non è piena. Infatti, i partiti adottano precisi principi il cui mancato rispetto può determinare anche l'espulsione. In passato, tra i metodi usati per garantire il rispetto vi erano le
dimissioni con data in bianco (da firmare all'atto di adesione al partito) e la deposizione anticipata del mandato (cioè l'abbandono della carica su semplice richiesta del partito).