Cass. civ. n. 17279/2018
Tutte le società commerciali a totale o parziale partecipazione pubblica, quale che sia la composizione del loro capitale sociale, le attività in concreto esercitate, ovvero le forme di controllo cui risultano effettivamente sottoposte, restano assoggettate al fallimento, essendo loro applicabile l'art. 2221 c.c. in forza del rinvio alle norme del codice civile, contenuto prima nell'art. 4, comma 13, del d.l. n. 95 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 135 del 2012 e poi nell'art. 1, comma 3, del d.l.vo n. 175 del 2016.
Cass. civ. n. 6835/2014
Lo scopo di lucro (c.d. lucro soggettivo) non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale, essendo individuabile l'attività di impresa tutte le volte in cui sussista una obiettiva economicità dell'attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi (cd. lucro oggettivo), requisito quest'ultimo che, non essendo inconciliabile con il fine mutualistico, ben può essere presente anche in una società cooperativa, pur quando essa operi solo nei confronti dei propri soci. Ne consegue che anche tale società ove svolga attività commerciale può, in caso di insolvenza, può essere assoggettata a fallimento in applicazione dell'art. 2545 terdecies cod. civ. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza dichiarativa di fallimento di una società cooperativa avente quale oggetto la commercializzazione verso terzi di prodotti agricoli conferiti dai soci, dei quali la società incassava il prezzo, senza che sia risultato provato che tutte le operazioni di vendita ed incasso compiute dalla società siano state seguite dal completo versamento del denaro ai soci).
Cass. civ. n. 13086/2010
L'art. 1, secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nel testo modificato dal d.l.vo 12 settembre 2007, n. 169, aderendo al principio di "prossimità della prova", pone a carico del debitore l'onere di provare di essere esente dal fallimento gravandolo della dimostrazione del non superamento congiunto dei parametri dimensionali ivi prescritti, ed escludendo quindi la possibilità di ricorrere al criterio sancito nella norma sostanziale contenuta nell'art. 2083 c.c., il cui richiamo da parte dell'art. 2221 c.c. (che consacra l'immanenza dello statuto dell'imprenditore commerciale al sistema dell'insolvenza, salve le esenzioni ivi previste), non spiega alcuna rilevanza; il regime concorsuale riformato ha infatti tratteggiato la figura dell' "imprenditore fallibile" affidandola in via esclusiva a parametri soggettivi di tipo quantitativo, i quali prescindono del tutto da quello, canonizzato nel regime civilistico, della prevalenza del lavoro personale rispetto all'organizzazione aziendale fondata sul capitale e sull'altrui lavoro.