Usi interpretativi ed usi legislativi — Natura e funzioni del 1° comma: funzione interpretativa dell'adesione ad usi generali. — Applicazioni particolari del 1° comma
E’ nota la distinzione fra usi legislativi ed usi interpretativi ed è stato autorevolmente osservato che questi ultimi si richiamano a ciò che suole praticarsi fra contraenti. In dottrina si avverte che l'uso interpretativo può essere efficace anche se non è osservato pubblicamente od in modo costante, anche se è contrario ad una legge non cogente; che l'uso interpretativo, d'altra parte, deve essere noto ai contraenti, deve provarsi come un contratto, e che infine l'errore su di esso costituisce errore di fatto non censurabile in Cassazione.
Ora è fuori di dubbio che sotto la rubrica: della interpretazione dei contratti, sia il codice del 1865 all'art. #1134#, sia il nuovo codice del 1942 all'art. 1368, disciplinano la funzione interpretativa degli usi nel campo contrattuale. D'altra parte è altrettanto sicuro che il codice del 1942 all'art. 1368 si richiama alle pratiche generali del luogo, da non confondersi con quelle intercorrenti solo fra le parti stipulatrici. Di qui la conseguenza che la dottrina non esita a considerare queste pratiche come veri usi, la cui esistenza può dimostrarsi con ogni genere di prova. Non manca tuttavia chi nota che il testo 1942 ha innovato su quello di un progetto 1936, che sembrava riferirsi all'uso legislativo, e che pertanto ha messo in evidenza il carattere interpretativo che assumono gli usi in questa sede, mentre, d'altra parte, parlando di ciò che si pratica generalmente, con quell'avverbio, che mancava nel testo del 1865, ha sottolineato che il richiamo concerne non la pratica individuale, bensì quella generale, equivalente alla consuetudine vera e propria, ciò che prima del codice del 1942 era controverso.
A nostro avviso, una pratica generale, comunque rilevante per il diritto, deve avere sempre i requisiti che si esigono per gli usi legislativi, e deve essere trattata in modo corrispondente. Deve essere una pratica pubblica, ininterrotta; può esistere anche se i contraenti la ignorano (come è confermato indirettamente dal 2° comma dell'articolo 1368); si prova con ogni mezzo; il giudice che la misconosce commette un errore di diritto.
Invece, secondo noi, l'adesione dei contraenti alla pratica generale rimane sempre un atto di privata volontà, anche se essa è presunta ai sensi dell'art. 1368. Senza dubbio è tale articolo che impone di presumere l'adesione in dati casi, ed erra in diritto il giudice che, trasgredendo tale articolo, non la presume quando dovrebbe farlo. Ma se il giudice, pur tenendone conto, ne fa cattiva applicazione, ne desume conseguenze che non dovrebbero essere tratte, erra in fatto, non in diritto, perché male applica una volontà contrattuale, per quanto presunta ed astratta essa sia.
Inoltre, la circostanza che la presunzione conduce ad applicare una volontà astratta, secondo la legge, in luogo di quella concreta, incerta, e che tutto questo si compie in via interpretativa, conduce alla conseguenza che se si prova che i contraenti non vollero il vincolo conforme alla pratica generale, essi ne vanno esenti, anche se pattuirono in modo ambiguo. Affinché ne vadano esenti bisogna però provare la loro volontà contraria; la prova soggiace alle limitazioni del regime probatorio contrattuale poiché è prova di volontà privata, non di prassi generale. Non basta provare una volontà assente, perché in tal caso subentrerebbe suppletivamente l'art. 1340. La volontà contraria deve essere comune; se non lo è, l’elemento intenzionale, come abbiamo visto, non può prevalere. Ma se lo è, essa prevale in forza dell'art. 1362, perché l’art. 1368 è interpretativo bensì, ma come sappiamo, ha funzione integrativa, onde subordinato al principio intenzionale che nell'art. 1362 è racchiuso.
Il 2° comma dell’art. 1368 – Interpretazione ed applicazione
Il 2° comma dell'art. 1368 è nuovo e, secondo quanto si avverte nella ricordata Relazione «soddisfa quella esigenza di uniformità nel contenuto dei contratti d'impresa, alla quale si è accennato a proposito dei contratti per adesione». Sostanzialmente il legislatore ha voluto tener conto delle esigenze organizzative delle imprese nella predisposizione dei loro affari con la clientela.
Ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell'impresa può non corrispondere né agli usi del luogo ove si trova chi contrae con l'impresa, né agli usi del luogo ove trovasi quella filiale o quell'ufficio dell'impresa che ha stipulato il contratto. E’ stato un errore, a nostro avviso, l'aver voluto badare soltanto alla sede, che può essere estranea al contratto. Si pensi all'arruolamento di un portiere per la agenzia di un istituto che ha la sua sede all'estero. L'interprete, che non può modificare il testo legislativo, può tuttavia adattarlo alle esigenze di buona fede, che, come sappiamo, dominano ogni altro criterio interpretativo, per superare simili discordanze. Già in dottrina si avverte che, anche nei casi previsti al 1° comma, il luogo dove si trova la cosa locata può prevalere sul luogo della conclusione del contratto; tale criterio che s'impone per ovvie esigenze di buona fede, a più forte ragione deve soccorrere nei casi previsti dal 2° comma. Qui si vede l'importanza di concepire queste norme, come sostanzialmente interpretative, nonostante la loro finalità integrativa. Lo stabilire la disciplina più congrua del rapporto contrattuale deve costituire la guida suprema di ogni opera interpretativa.
Se, infine, ambo i contraenti sono imprenditori, viene meno l'eccezione e, come si è giustamente notato, si ritorna alla regola del 1° comma che fa prevalere gli usi del luogo di stipulazione del contratto.