AUTORE:
David Di Francescantonio
ANNO ACCADEMICO: 2017
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Università degli Studi di Roma La Sapienza
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
Sia in Italia che in Francia, la congiuntura economica recente ha spinto il legislatore ad intraprendere – oramai da oltre venti anni, ma ora più intensamente – opere di riforma che aumentassero, a beneficio delle imprese, una maggiore flessibilità, sia in entrata, che in uscita che durante l’impiego, allo scopo di aumentare la produttività dei prestatori di lavoro e spingere le imprese stesse ad assumere, riducendo la crescente disoccupazione dovuta al periodo di crisi.
La flessibilità in uscita è stata potenziata, primariamente, tramite gli istituti giuridici oggetto dell’elaborato, proprio in virtù dello scopo predetto: il legislatore ha inteso assicurare ai datori di lavoro una maggiore “libertà di movimento”, sia per far fronte alle situazioni di crisi, sia per aumentare la competitività delle imprese nazionali.
Ciò è avvenuto, in primis, con la riforma dei regimi sanzionatori: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo è ora soggetto a sanzioni inferiori e generalmente confinato alla tutela indennitaria, fatti salvi i casi di nullità del licenziamento; in Francia, la situazione è simile, con la reintegra che è prevista dalla legge nei confronti dei licenziamenti abusivi ma con la possibilità del datore di lavoro di rifiutarla e di optare per una sanzione di tipo prettamente economico (anche in questo caso, ad eccezione dei licenziamenti nulli). Ne risulta così, appunto in favore della maggiore libertà organizzativa della propria impresa, posto in secondo piano l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro.
Tuttavia, la maggiore flessibilità in uscita ottenuta tramite una riduzione delle tutele nei confronti di casi di abuso della facoltà di licenziare da parte del datore di lavoro può comportare anche implicazioni negative. Personalmente ritengo che a fronte di licenziamenti economici illegittimi, non sia opportuno limitare la reintegrazione a casi limitatissimi: infatti, fintanto che il licenziamento sia riconosciuto come illegittimo, fuori dai soli casi di vizi formali o procedurali, deve poter essere offerta al lavoratore l’opportunità di essere reintegrato nel posto di lavoro. Anche perché la misura sanzionatoria di tipo economico non è di per sé mai “compensatrice” del posto di lavoro perso. Dato per assodato che non è nemmeno pensabile imporre al datore di lavoro sanzioni economiche ancor più pesanti che quelle previste nel 1970, in tempi di forte crescita economica, il lavoratore non avrà mai lo stesso soddisfacimento con le sanzioni economiche, anche se queste fossero molto gravose: infatti, in primis, il lavoro è preferito in quanto costante nel tempo (il lavoratore potrebbe proseguire fino all’età pensionabile); in secundis, il lavoro è continuativo, e quindi assicura al lavoratore una remunerazione costante, laddove l’indennità sostituiva spingerebbe il lavoratore verso una sorta di “stress psicologico”, stante il dover mantenere la somma ottenuta fino al reperimento di un nuovo impiego.
La flessibilità in uscita è stata potenziata, primariamente, tramite gli istituti giuridici oggetto dell’elaborato, proprio in virtù dello scopo predetto: il legislatore ha inteso assicurare ai datori di lavoro una maggiore “libertà di movimento”, sia per far fronte alle situazioni di crisi, sia per aumentare la competitività delle imprese nazionali.
Ciò è avvenuto, in primis, con la riforma dei regimi sanzionatori: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo è ora soggetto a sanzioni inferiori e generalmente confinato alla tutela indennitaria, fatti salvi i casi di nullità del licenziamento; in Francia, la situazione è simile, con la reintegra che è prevista dalla legge nei confronti dei licenziamenti abusivi ma con la possibilità del datore di lavoro di rifiutarla e di optare per una sanzione di tipo prettamente economico (anche in questo caso, ad eccezione dei licenziamenti nulli). Ne risulta così, appunto in favore della maggiore libertà organizzativa della propria impresa, posto in secondo piano l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro.
Tuttavia, la maggiore flessibilità in uscita ottenuta tramite una riduzione delle tutele nei confronti di casi di abuso della facoltà di licenziare da parte del datore di lavoro può comportare anche implicazioni negative. Personalmente ritengo che a fronte di licenziamenti economici illegittimi, non sia opportuno limitare la reintegrazione a casi limitatissimi: infatti, fintanto che il licenziamento sia riconosciuto come illegittimo, fuori dai soli casi di vizi formali o procedurali, deve poter essere offerta al lavoratore l’opportunità di essere reintegrato nel posto di lavoro. Anche perché la misura sanzionatoria di tipo economico non è di per sé mai “compensatrice” del posto di lavoro perso. Dato per assodato che non è nemmeno pensabile imporre al datore di lavoro sanzioni economiche ancor più pesanti che quelle previste nel 1970, in tempi di forte crescita economica, il lavoratore non avrà mai lo stesso soddisfacimento con le sanzioni economiche, anche se queste fossero molto gravose: infatti, in primis, il lavoro è preferito in quanto costante nel tempo (il lavoratore potrebbe proseguire fino all’età pensionabile); in secundis, il lavoro è continuativo, e quindi assicura al lavoratore una remunerazione costante, laddove l’indennità sostituiva spingerebbe il lavoratore verso una sorta di “stress psicologico”, stante il dover mantenere la somma ottenuta fino al reperimento di un nuovo impiego.