La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 37129 del 13 ottobre 2021, è tornata sul tema della violenza sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità della vittima, ribadendo – sulla scia di un consolidato orientamento – che l’induzione a compiere o a subire atti sessuali si realizza quando “con un comportamento attivo di persuasione sottile e subdola, l’agente spinge o istiga il soggetto che versi nella ricordata situazione di inferiorità fisica o psichica ad aderire ad atti sessuali che, diversamente, non avrebbe compiuto”.
Nel caso di specie, il Tribunale aveva condannato l’imputato per il reato ex art. art. 609 bis del c.p. co. 2 n. 1) c.p. per aver, in più occasioni, indotto una ragazza di trent’anni più giovane a compiere e subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica di quest’ultima, affetta da un ritardo cognitivo medio e da disformia facciale. L’uomo, infatti, aveva approfittato di tali condizioni e l’aveva convinta, mediante continui approcci a mezzo facebook, ad inviargli del materiale pornografico autoprodotto nonché a due incontri di natura sessuale.
La Corte d’appello, successivamente, aveva in parte riformato la sentenza di prime cure, concedendo all’imputato le circostanze attenuanti generiche.
Avverso tale pronuncia l’imputato aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo la non configurabilità in radice del reato: le condizioni fisiche e psichiche della vittima, a suo dire, apparivano infatti del tutto normali e comunque non vi era alcuna inferiorità in quanto la stessa era maggiorenne e godeva di piena autonomia decisionale.
La Suprema Corte, poi, ritenendo pienamente provate le condizioni di inferiorità della persona offesa, ha dichiarato il ricorso inammissibile.
La motivazione di tale sentenza contiene una chiara spiegazione dell’elemento dell’induzione e, pertanto, pare meritevole di analisi.
Preliminarmente, tuttavia, è opportuno ricordare che il reato di violenza sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psico-fisica è previsto dall’art. art. 609 bis del c.p. co. 2 n. 1) c.p. Tale norma dispone, infatti, che è punito con la pena della reclusione da sei a dodici anni chiunque induca taluno a compiere o subire atti di natura sessuale abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto.
Relativamente all’elemento dell’inferiorità fisica o psichica, va poi evidenziato che il caso più comune in cui tale condizione di particolare vulnerabilità ricorre nella vittima è quello della menomazione da malattia, congenita o sopravvenuta.
Ma giova ricordare altresì alcune altre circostanze che vengono pacificamente ricondotte dalla giurisprudenza di legittimità alle condizioni di inferiorità, quali:
a) il caso in cui la vittima abbia assunto sostanze stupefacenti;
b) il caso in cui la vittima abbia ingerito sostanze alcoliche;
Secondo un solido orientamento della Cassazione, peraltro, l’alterazione della vittima può essere anche volontaria: ciò non esclude, infatti, l’integrazione del reato di violenza sessuale qualora il soggetto agente abbia dolosamente approfittato di tale alterazione al fine di indurre la persona offesa a compiere/subire atti sessuali cui non avrebbe acconsentito in condizioni normali.
Tanto rammentato, è possibile esaminare i recenti approdi della Cassazione circa la condotta di induzione.
Ebbene, la Suprema Corte ha ribadito che essa non richiede necessariamente veri e propri atti di costrizione ovvero di intimidazione, ma presuppone l’esistenza di un consenso della persona offesa, ottenuto mediante “un comportamento attivo di persuasione sottile e subdola”.
Il disvalore della condotta, invero, risiede nel fatto che tale consenso è viziato dalle condizioni di inferiorità della vittima, particolarmente vulnerabile dal punto di vista mentale e/o fisico.
Aprendo una parentesi, si può segnalare a questi riguardi che il ragionamento del legislatore è analogo a quello svolto al fine di incriminare gli atti sessuali compiuti con il minorenne consenziente: anche in tal caso sussiste un consenso, che tuttavia è viziato dalle condizioni di inferiorità, questa volta non psicofisica ma anagrafica, della vittima, la quale si presume non in grado di svolgere una scelta matura circa la propria sessualità e dunque di autodeterminarsi.
Ciò ricordato, può dunque rilevarsi – come segnala in conclusione la Suprema Corte - che nella fattispecie in esame il consenso non è idoneo a scriminare l’agente, in quanto espresso in una condizione di “vera e propria sopraffazione nei confronti della vittima, la quale non è in grado di aderire perché convinta, ma soggiace al volere del soggetto attivo”.
La Cassazione torna sugli elementi costitutivi del reato ex 609 bis c.p. co. 2 n. 1), chiarendo i contorni dell’induzione.