Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Pisa aveva condannato un imputato per il primo di tali reati, in quanto il medesimo risultava aver, “con violenza, consistita nel costringere a rimanere in posizione supina la paziente stesa sul lettino delle visite, nonché nel prendere tra le mani il viso della donna, avvicinandolo al proprio”, costretto la donna “a subire atti sessuali consistenti nell’avvicinare il proprio viso all’addome della paziente sdraiata sul lettino, nell’afferrare il viso della paziente avvicinandolo al proprio, leccandole il naso e dicendole ‘sei il mio incubo notturno, mi fai impazzire’”.
La sentenza veniva impugnata dinanzi la Corte d’appello, la quale riteneva di dover riqualificare il fatto, inquadrandolo nell’ambito dell’art. 610 codice penale (violenza privata).
Secondo il giudice di secondo grado, infatti, la condotta posta in essere dall’imputato non poteva ritenersi “connotata da un intento libidinoso”, dovendosi riconoscere che “nel corso della visita, il medico si era comportato in modo ineccepibile, quando avrebbe potuto, invece, cogliere una migliore occasione per approfittare del momento e del ruolo assunto, a fini sessuali”.
Pertanto, secondo la Corte, la condotta dell’imputato non poteva essere considerata “violenza sessuale” ma “violenza privata”, in quanto, comunque, il medico aveva “impedito il movimento della paziente”.
Ritenendo la sentenza ingiusta, il medico proponeva ricorso per Cassazione, rilevando come la condotta posta in essere non fosse caratterizzata da alcuna “violenza”, in quanto gli stessi giudici avevano riconosciuto che “il ricorrente aveva stretto il viso della persona offesa, leccandole il naso” ma avevano definito tale gesto come “fugace, esprimendone l’intrinseca irrilevanza sul piano degli effetti concreti”.
La Corte di Cassazione riteneva di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, evidenziando come dovesse porsi l’accento sulla “idoneità della minaccia o violenza spiegata, nella specie, dall’imputato per la determinazione dell’evento contemplato dall’art. 610 c.p.”
Tale fattispecie, infatti, secondo la Cassazione, “tutela la libertà individuale, intesa come possibilità di determinarsi spontaneamente, secondo motivi propri”.
Inoltre, affinchè la condotta assuma rilevanza penale, è necessario che la violenza o la minaccia determinino “una perdita o riduzione sensibile, da parte del soggetto passivo, della capacità di determinarsi ed agire secondo la propria volontà”.
Precisava la Cassazione, dunque, come non ogni forma di violenza o minaccia sia riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 610 c.p., la quale ricomprende solo “quella idonea – in base alle circostanze concrete – a limitare la libertà di movimento della vittima o ad influenzare significativamente il processo di formazione della volontà, incidendo su interessi sensibili del soggetto vittima di coartazione”.
Ebbene, nel caso di specie, il giudice di secondo grado non sembrava aver adeguatamente motivato la propria decisione di condanna ai sensi dell’art. 610 c.p., dal momento che i comportamenti posti in essere dall’imputato erano stati definiti “assai fugaci”.
Secondo la Cassazione, dunque, la decisione di condanna appariva incoerente, rendendosi necessario un nuovo esame della fattispecie.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione annullava la sentenza di secondo grado, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, tenendo conto delle considerazioni sopra esposte.