La vicenda giudiziaria vedeva protagonista un dipendente di una nota compagnia telefonica al quale, dopo aver utilizzato per quindici anni, con una media di quattro ore al giorno, un cellulare dotato di tecnologia Etacs, caratterizzata da emissioni fino a cento volte più forti degli attuali apparecchi, veniva diagnosticato un neurinoma del nervo acustico.
Il Tribunale di Ivrea, nel 2017, condannava l’Inail a pagare all’uomo una rendita vitalizia corrispondente ad un’invalidità del 23%.
La Corte d’Appello di Torino ha confermato la sentenza emessa in primo grado, rigettando il ricorso presentato dall’Inail.
I giudici di secondo grado, sulla scorta di quanto esposto dai consulenti tecnici d’ufficio, hanno ritenuto provato con elevata probabilità logica il nesso causale tra la prolungata e considerevole esposizione alle radiofrequenze e l’insorgenza del cancro. Si è, infatti, osservato che sono “i dati epidemiologici, i risultati delle sperimentazioni sugli animali, la durata e l’intensità dell’esposizione che assumono particolare rilievo considerata l’accertata, a livello scientifico, relazione dose-risposta tra esposizione a radiofrequenze da telefono cellulare e rischio di neurinoma dell’acustico, unitamente alla mancanza di un altro fattore che possa avere cagionato la patologia”.
Secondo il Collegio giudicante, il fatto che l’appellato sia stato esposto alle radiofrequenze per quindici anni, dal 1995 al 2010, anno in cui è stata diagnosticata la malattia, stando alla letteratura in materia, è pienamente compatibile con lo sviluppo di tale tipologia di cancro. Sul punto la stessa Corte ha, peraltro, sottolineato di aver ritenuto maggiormente attendibili le conclusioni tratte da autori totalmente indipendenti dalla parte appellante. Nel corso del giudizio era, infatti, emerso che, seppure buona parte della letteratura scientifica, indicata dall’Inail a propria difesa, escludesse la cangerogenicità dell’esposizione a radiofrequenze, gli autori di tali studi, come riportato dai consulenti tecnici, si trovavano in una posizione di conflitto d’interessi poiché, in quanto membri della Commissione Internazionale per la Protezione dalle Radiazioni Non Ionizzanti e dello Scientific Committee on Emerging and Newly Identified Health Risks, avevano ricevuto finanziamenti dall’industria.
La Corte d’Appello adita ha, inoltre, evidenziato che, trattandosi nel caso concreto di una malattia professionale non tabellata ed eziologicamente multifattoriale, l’onere di provare la causa da lavoro grava sul lavoratore e va valutata in termini di ragionevole certezza, escludendo la rilevanza della mera possibilità di un’origine professionale del morbo. Nel caso di specie, la malattia è risultata concretamente provata con un rilevante grado di probabilità, come emerso dalla c.t.u.