La giurisprudenza si è lungamente soffermata sulla possibilità di derogare la norma di legge con una convenzione tra le parti che decidano di stabilire confini diversi dai canonici, addivenendo ad una soluzione praticabile solo con la pronuncia della Cassazione n. 3304/2023.
La norma generale impone che vi sia una distanza pari a tre metri tra costruzioni su fondi confinanti di proprietà di due soggetti diversi, che non siano unite o aderenti, con eventuale deroga di regolamenti locali o comunali che possono individuare una distanza maggiore.
Inoltre, per le pareti finestrate e le pareti di edifici antistanti si prevede una distanza minima di dieci metri, in tutte le zone omogenee del territorio comunale ad eccezione dei centri storici, nei quali per gli interventi di risanamento e di ristrutturazione, le distanze tra edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti fra i volumi edificati preesistenti.
Qualora vi siano gruppi di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planivolumetriche le distanze possono essere anche inferiori.
Se le distanze previste dalla legge non vengono rispettate, le conseguenze sono diversificate a seconda che la norma violata sia quella del codice o altra norma di legge, come il D.M. n. 1444 del 2 aprile 1968, oppure altre discipline. Nel primo caso il vicino può chiedere la riduzione in pristino con rimozione dell’opera o della pianta che viola le distanze, oltre che il risarcimento del danno; mentre per le altre regolamentazioni la richiesta deve essere limitata al solo risarcimento del danno.
La Suprema Corte ha stabilito che le distanze previste dal Codice civile sono derogabili con una convenzione fra le parti, in cui si afferma il diritto di tenere l’edificio a distanza minore rispetto alla legale con una servitù. Invece, le regole fissate da regolamenti locali o comunali e dalle normative speciali che prevedano una distanza superiore ai tre metri sono inderogabili e quindi non possono essere cambiate da alcun accordo fra le parti.
Si conclude che, alla presenza di una disciplina diversa da quella legislativa, i proprietari del fondo possono scegliere solamente come ripartire le distanze tra i rispettivi fondi; questo al fine di rispettare un modello urbanistico già prefissato nell’interesse dell’intera comunità.
Nel caso in cui due vicini riescano ad accordarsi sulle distanze da osservare per l’eventuale costruzione di un’opera sul fondo, si dovranno preoccupare di fissare le proprie volontà con atto scritto, ovvero con un contratto di costituzione della servitù, in cui sia chiaramente espressa la decisione di derogare la norma di legge con l’accordo.
Questo è ciò che emerge dal fatto sottoposto all’esame della Corte di Cassazione, in cui l’autorizzazione a costruire a distanza inferiore ai tre metri era stata concessa dal vicino verbalmente, senza alcun atto scritto. In questo frangente, la pronuncia ha ribadito l’impossibilità di derogare le distanze legali tra costruzioni, quando sono fissate da piani regolatori e regolamenti edilizi comunali proprio perché poste a tutela dell’interesse generale al rispetto di un prefigurato modello urbanistico.
Gli accordi sono invalidi anche a seguito del rilascio di concessione edilizia, che non può violare, in ogni caso, i principi generali dettati.
Quindi, la disciplina derogatoria è limitata alla sola distanza prevista dal Codice civile e deve essere fissata con un contratto che costituisca una servitù prediale a norma dell’[[art. 1058cc]] c.c., dando contezza degli effettivi accordi intercorsi tra i due vicini.
Il limite legale per il proprietario del fondo dominante dovrà, quindi, venire meno a favore del fondo contiguo beneficiario, che ha acquisito con l’accordo la facoltà di invadere la sfera esclusiva del fondo servente.