Questo decreto è stato subito oggetto di feroci critiche da parte del Patronato Inca e della CGIL che avevano preannunciato una raffica di ricorsi per far sì che venisse accertata l'illegittimità di questa iniqua imposta.
Ed effettivamente, le critiche ed i successivi ricorsi promossi dal Sindacato, hanno sortito l'effetto sperato grazie alla sentenza della Corte di Giustizia del 2 settembre 2015.
La Corte di Lussemburgo ha infatti affermato che il contributo richiesto ai migranti per poter lavorare nel nostro Paese era sproporzionato, tenuto conto anche dei contributi richiesti dallo Stato per attività similari quali il rilascio della carta d'identità, ed ingiusto, in quanto la sua entità poteva compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva 2003/109/UE, per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi che si vogliono stabilire a titolo duraturo negli Stati membri.
Ma è solo qualche giorno fa che il Tribunale di Bari ha accolto il ricorso ex art. 702 bis del c.p.c. di una coppia di coniugi albanesi e, ricalcando i precedenti giurisprudenziali sull'illegittimità del D.M. del 6.10.2011, ha altresì condannato il Ministero alla restituzione di quanto corrisposto in base al Decreto dichiarato illegittimo.
L'art. 2033 del c.c. c.c. prevede infatti che chi "ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato", e dunque il Tribunale di Bari ha condannato il Consiglio dei Ministri a restituire alla coppia 440 euro, oltre al pagamento degli interessi e delle spese del giudizio.
La posta in palio è però immensamente più alta, visto che la sentenza apre il varco ad una valanga di procedimenti volti alla restituzione di importi corrisposti dai cittadini stranieri da gennaio 2012 fino al 2016 per circa 500 milioni di euro, essendo, peraltro, stata avviata in tutte le sedi territoriali della CGIL una campagna per la richiesta di rimborso.