Se il datore applica un contratto collettivo nazionale (CCNL), bisogna vedere se quel contratto stabilisce la data entro cui il lavoratore deve essere pagato: data spesso fissata al 27 del mese. In alternativa, occorre guardare al contratto individuale aziendale.
Se la data non è stabilita contrattualmente, si applica la regola generale del pagamento mensile: il datore deve versare il salario alla scadenza del periodo di paga di riferimento (ogni fine mese). Quindi, lo stipendio va versato il 30 o 31 del mese (a seconda dei giorni del mese) e, per febbraio, il 28 o 29 (a seconda che l’anno sia o meno bisestile).
Tuttavia, bisogna anche tener conto che, nella pratica, spesso, per ragioni contabili, il datore paga entro il decimo giorno del mese successivo a quello di scadenza. Ad esempio, lo stipendio del mese di settembre viene versato entro il 10 ottobre.
Peraltro, non bisogna confondere l’obbligo di pagare lo stipendio entro il termine con l’obbligo di consegnare la busta paga al dipendente. Infatti, come precisato dalla Cassazione, la busta paga prova solo la consegna del prospetto, ma non dimostra l’avvenuto pagamento del salario.
Allora, il lavoratore cosa può fare in caso di ritardo dello stipendio?
Chiaramente, non si fa riferimento all’ipotesi in cui il datore tardi qualche giorno. Infatti, si è visto che, in concreto, spesso il pagamento non avviene a fine mese, ma entro il giorno 10 del mese successivo. Invece, il problema si pone quando il ritardo è più consistente.
In generale, il mancato versamento entro il termine stabilito determina la mora (e, quindi, l’obbligo per il datore di corrispondere gli interessi).
In primo luogo, è consigliabile seguire una via bonaria: richiedere informazioni al datore di lavoro per capire i motivi del ritardo e avere una spiegazione. In particolare, il dipendente dovrà rivolgersi all’ufficio risorse umane o all’amministrazione.
Se questo primo contatto non ha successo, il dipendente può decidere di affidarsi ad un avvocato (o, in alternativa, al sindacato) per diffidare il datore di lavoro ad adempiere: cioè, si sollecita e diffida il datore a versare lo stipendio entro un certo giorno, avvisandolo che si seguiranno le vie legali nel caso di mancato pagamento entro il termine.
Se anche la diffida non ha successo, il lavoratore dovrà rivolgersi ad un avvocato e richiedere un decreto ingiuntivo in Tribunale: cioè, un ordine al datore di pagare immediatamente. Se il datore non fa opposizione entro 40 giorni dalla notifica del provvedimento, il decreto diventa definitivo e il lavoratore può iniziare il procedimento esecutivo per il recupero del proprio credito.
Però, c’è da dire che tale procedura non assicura il risultato. Tuttavia, nel caso in cui il datore sia stato dichiarato fallito e il rapporto sia cessato, il lavoratore potrà invocare il Fondo di garanzia Inps per il pagamento del Tfr e, se non versate, delle ultime tre mensilità.
Ancora, il “ritardare il pagamento dello stipendio” può essere giusta causa di dimissione?
Bisogna distinguere. Se il datore tarda qualche giorno, il dipendente non può recedere dal contratto per giusta causa. Secondo la legge, è necessario un grave inadempimento e la giurisprudenza ha precisato che tale gravità c’è quando il datore non paga due stipendi consecutivi.
Quindi, se il dipendente ha il dovere di adempiere alle proprie attività lavorative, il datore ha l’obbligo di pagare regolarmente lo stipendio pattuito nel contratto di assunzione.