Avverso il provvedimento di inammissibilità dell’impugnazione, veniva conseguentemente proposto ricorso per Cassazione. I ricorrenti deducevano, in particolare, il vizio di violazione di legge, ex. art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento alla violazione dell’art. 2048 c.c. In quest’ottica il Tribunale avrebbe errato nel non accogliere la loro richiesta di essere, in via di regresso, manlevati dal barbiere, datore di lavoro - maestro d’arte del di loro figlio. Avrebbe, quindi, ritenuto irrilevanti le prove da essi presentate ai fini della dimostrazione della culpa in vigilando del suddetto titolare.
La ricostruzione operata in tali termini da parte del Tribunale implicherebbe, infatti, una falsa applicazione della norma di cui all’art. 2048 c.c., nella parte in cui si determina ope legis una presunzione. Si ricordano a tal proposito il secondo ed il terzo comma della norma da ultimo citata, che sanciscono: “I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto”.
La prova di non aver potuto impedire il fatto, secondo il Supremo Consesso, “consiste nella dimostrazione che il fatto produttivo di danno fu imprevedibile o inevitabile: e dunque fu un caso fortuito”. Prevedibilità e prevenibilità che sono elementi essenziali della colpa. Va aggiunto, inoltre, che “è in colpa chi, pur potendo prevedere o prevenire l’evento dannoso, non se lo prefiguri o non lo prevenga. Di converso, non può dirsi in colpa chi non potè prevedere un evento imprevedibile, né prevenire un evento inevitabile” (Cass., n. 2463/1995).
La valutazione dei suddetti profili colposi va condotta, dunque, secondo canoni di diligenza, in ossequio dei principi generali in tema di colpa professionale, ex art. 1176, comma 2 c.c.
Oggetto di tale valutazione è la comparazione della condotta in concreto tenuta dal presunto responsabile con quella del c.d. eiusdem generis et condicionis, ovvero con quella che avrebbe tenuto nelle medesime circostanze “il maestro d’arte serio, coscienzioso ed avveduto”.
Ha aggiunto la Corte che, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità assolutamente dominante, tra i doveri principali di precettori e maestri rientra quello della presenza. Questo può evincersi non solo ex art. 1176 c.c., ma anche, nella specie, dall’art. 11, comma 1, lett a), in tema di disciplina dell’apprendistato, vigente all’epoca dei fatti. La norma citata, prescrivendo il dovere di “impartire o di far impartire nella sua impresa all’apprendista alle sue dipendenze l’insegnamento necessario perché possa conseguire la capacità per diventare lavoratore qualificato”, fa conseguire un obbligo di vigilanza sull’attività del subordinato. Non vi sarebbe altrimenti insegnamento alcuno in assenza dello stesso titolare. Sulla base di tali rilievi, la Cassazione ha sancito che il “precettore medio non avrebbe mai lasciato solo un apprendista minorenne”.
Il Tribunale avrebbe, dunque, dovuto correttamente valutare la presunzione di cui all’art. 2048 c.c., specialmente alla luce dell’acclarata sussistenza di una condotta concretamente negligente. Stante quanto osservato, la Suprema Corte, nel cassare la sentenza impugnata, ha applicato il seguente principio di diritto: “Il precettore od il maestro d’arte, per liberarsi della presunzione di colpa posta a loro carico dall’art. 2048 c.c., hanno l’onere di provare che né loro, né alcun altro precettore diligente, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., avrebbe potuto, nelle medesime circostanze, evitare il danno”.