L’estorsione consiste, secondo la norma appena citata, nel procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa.
Esaminiamo insieme i fatti che hanno dato origine alla pronuncia della Suprema Corte, la n. 12633/2024.
A ricorrere in Cassazione è un uomo, condannato sia in primo che in secondo grado per i delitti di estorsione (art. 629 c.p., appunto) e atti persecutori (art. 612 bis c.p.), commessi in danno della compagna.
Tra i fatti oggetto dei capi di imputazione vi era anche, per il profilo che qui specificamente affrontiamo, la minaccia di mettere fine alla relazione se la donna non gli avesse versato determinate somme di denaro.
Su cosa era basata la linea difensiva dell’imputato?
Nel ricorso per cassazione, la difesa dell’uomo sosteneva, in primo luogo, l’inutilizzabilità dei messaggi WhatsApp in quanto acquisiti in assenza di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria.
Questo motivo di impugnazione è stato sconfessato dalla Corte, la quale ha evidenziato che i messaggi WhatsApp non erano stati acquisiti dalla polizia giudiziaria, bensì prodotti direttamente dalla persona offesa, che li aveva allegati alla propria denuncia.
Pertanto, ha ribadito la Cassazione, i messaggi WhatsApp vanno considerati alla stregua di prove documentali ex art. 234 c.p.p.: per questo motivo non si applica né la disciplina sulle intercettazioni né quella sull’acquisizione di corrispondenza (art. 254 c.p.p.).
Ma veniamo all’oggetto specifico della nostra trattazione.
Sempre secondo la linea difensiva dell’imputato, infatti, la coppia era solita utilizzare nei rapporti reciproci un linguaggio “forte”: tale tipo di comunicazione tra i due partner doveva considerarsi - sempre secondo la tesi degli avvocati dell’uomo - del tutto consensuale, accettato quindi di buon grado dalla donna.
Anche in questo le argomentazioni della difesa sono state rigettate dalla Suprema Corte.
Gli Ermellini, infatti, hanno affermato che anche la presenza di un linguaggio dai toni spinti all’interno del ménage della coppia non legittima certo “le pesanti offese, gli insulti, le minacce di morte e il reiterato disprezzo” costantemente rivolti dall’uomo nei confronti della moglie; moglie che si trovava, al contrario, in una situazione di “prevaricazione e sudditanza psicologica”.
Sulla base di queste premesse, la Cassazione ha condiviso le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello, la quale aveva escluso che i versamenti di denaro richiesti alla donna dal partner fossero il frutto di una libera scelta della vittima.
Invece, tali versamenti dovevano considerarsi effetto di una vera e propria estorsione.
Al riguardo, la Suprema Corte sottolinea che la minaccia può essere esercitata sia con toni apertamente aggressivi, sia in modo più subdolo, in maniera comunque tale da incutere timore e “coartare”, cioè costringere, forzare la volontà della vittima.
Il che può avvenire, precisa la sentenza in esame, anche per mezzo della minaccia di rompere una relazione sentimentale, che assume i contorni di un vero e proprio ricatto: o meglio, in termini giuridici, di una estorsione.