Recentemente la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla
legittimità costituzionale dell’art.
4 bis, comma 1, della
Legge sull'ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354)
“nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ivi ricompresi quello di cui all’art. 630 c.p., allorché sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte Costituzionale n. 68 del 23 marzo 2012”.
La vicenda ha avuto origine dall’
istanza di affidamento in prova al servizio sociale proposta presso il Tribunale di sorveglianza di Firenze da parte di un
detenuto, il quale era in possesso di tutti i requisiti che, ai sensi dell'art.
47 della citata legge sull'ordinamento penitenziario, erano idonei ad ottenere tale misura, ma che, tuttavia, essendo egli stato
condannato per
sequestro di persona a scopo di estorsione ex art.
630 c.p., non risultavano sufficienti, in quanto il reato ascrittogli era incluso tra i c.d.
reati ostativi per i quali non è possibile concedere tale beneficio.
Il Tribunale di sorveglianza ha proposto
questione di legittimità costituzionale, ritenendo che l’art.
4 bis comma 1 contrastasse con con l’art.
3 Cost, nella parte in cui irragionevolmente parificava un condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione a cui erano state applicate le attenuanti per la
lieve entità del fatto ai condannati per delitti più gravi che denotano un elevato rischio di
pericolosità sociale, per i quali appunto era stata pensata l’introduzione del più restrittivo regime ex art.
4 bis. Infatti, i reati contemplati dalla norma sarebbero quelli contraddistinti
“dal necessario o almeno normale inserimento del reo in compagini criminose di gruppo o comunque collegate con organizzazioni criminali”, carattere che, secondo il tribunale, non poteva dirsi sussistente nel caso in esame, in quanto l’applicazione dell’attenuante della lieve entità del fatto implicherebbe, oltre che una diminuzione della pena, anche
“una valutazione di minore pericolosità degli autori o almeno un’attenuazione della presunzione di pericolosità”.
Secondo il Tribunale, vi sarebbe poi stato un contrasto con l’art.
27 Cost., in quanto l’impedire l’applicazione della misura alternativa dell’affidamento in prova avrebbe ostacolato la
funzione rieducativa della pena ed il reinserimento del condannato all'interno della società.
La Corte Costituzionale si è espressa con la
sentenza n. 52/2020, dichiarando la questione
infondata. Nel farlo, ha ribadito quanto aveva precedente affermato in occasione della sentenza n. 188/2019, secondo la quale
“l’unica adeguata definizione della disciplina di cui all’art. 4 bis della legge sull'ordinamento penitenziario consiste nel sottolinearne la natura di disposizione speciale, di carattere restrittivo, in tema di concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o internati, che si presumono socialmente pericolosi unicamente in ragione del titolo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti”.
Per la norma incriminata, dunque, è esclusivamente in base al
titolo del reato che va valutata la
presunzione di pericolosità sociale; perciò, il fatto che al condannato sia stata riconosciuta un’attenuante non deve andare ad incidere sulla validità di tale presunzione nei suoi confronti. Infatti, le attenuanti hanno lo scopo di adeguare la pena al caso concreto, ma la loro applicazione non è necessariamente collegata all’effettiva pericolosità della
condotta.
Per questi motivi, la Corte Costituzionale ha affermato che, come tutte le attenuanti, anche quella relativa alla lieve entità del fatto deve considerarsi
rilevante solamente al fine della quantificazione della pena, mentre
“non risulta idonea ad incidere, di per sé sola, sulla coerenza della scelta legislativa di ricollegare al sequestro con finalità estorsive un trattamento più rigoroso in fase di esecuzione, quale che sia la misura della pena inflitta nella sentenza di condanna”.