Nel caso esaminato dalla Cassazione, un minorenne era stato sospettato di essersi appropriato di un pezzo di cioccolato esposto nel banco di un supermercato.
Il minore, dunque, era stato fermato e trascinato con la forza in direzione, dove era sottoposto a perquisizione personale da due dipendenti del supermercato (su ordine del direttore), la quale, peraltro, aveva dato esito negativo.
In relazione a tale condotta, il padre del ragazzino aveva denunciato i dipendenti del supermercato e il direttore per “sequestro di persona”, di cui all’art. 605 c.p.
Il Tribunale di Lecce, pronunciatosi in primo grado, aveva condannato i soggetti in questione per il reato loro contestato, in ragione delle dichiarazioni rese da alcuni testimoni e dei certificati medici prodotti in corso di causa.
La sentenza era stata confermata dalla Corte d’appello di Lecce, con la conseguenza che i condannati avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo i ricorrenti, in particolare, non sussistevano, nel caso di specie, gli elementi costitutivi del reato di “sequestro di persona” e, al più, sarebbe stato configurabile il reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, di cui all’art. 393 c.p., in quanto “la finalità della condotta degli imputati era quella di controllare cosa nascondesse in tasca il ragazzo”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione agli imputati, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, in proposito, che, dalle dichiarazioni testimoniali rese in corso di causa, era emerso che il minore era stato “preso per il collo da due persone e trascinato nella stanza della direzione”.
Evidenziava la Cassazione, inoltre, che tale circostanza aveva trovato conferma nei certificati medici prodotti, dai quali risultava che, effettivamente, sul collo del minore, erano state riscontrate “delle escoriazioni del tutto compatibili con il tipo di aggressione praticata”.
Secondo la Cassazione, dunque, non vi era dubbio che il fatto contestato fosse inquadrabile nel delitto di “sequestro di persona”, di cui all’art. 605 c.p., dal momento che, anche la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2429 del 1993, ha precisato che deve ritenersi responsabile di tale reato chi, “anzichè denunciare all’autorità chi sospetta autore di un furto, lo abbia privato della libertà personale per indurlo alla confessione o alla rivelazione del luogo ove ha rilasciato la refurtiva”.
Il caso in esame, pertanto, secondo la Corte, non poteva essere ricondotto al reato di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” (art. 393 c.p.), in quanto “per aversi esercizio arbitrario delle proprie ragioni è necessario che l’agente agisca per esercitare un preteso diritto soggettivo e non per illegittimamente esercitare, come hanno fatto i tre ricorrenti, una potestà pubblica”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dagli imputati, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando i ricorrenti anche al pagamento delle spese processuali.