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La nozione di “atti di concorrenza” ex art. 513 bis c.p.: una soluzione conforme al diritto sovranazionale?

La nozione di “atti di concorrenza” ex art. 513 bis c.p.: una soluzione conforme al diritto sovranazionale?
Per "atti di concorrenza” si intende compimento di atti di che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente.
Con una interessantissima pronuncia (sentenza n. 13178 del 28 aprile 2020), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate sul significato da attribuire al sintagma “atti di concorrenza” contenuto all’interno della fattispecie ex art. 513 bis del c.p., risolvendo un annoso contrasto che da anni affligge gli interpreti.

Prima di entrare in media res, è noto che il diritto penale, a cagione delle conseguenze che derivano dalla violazione dei suoi precetti, deve ispirarsi al principio di tassatività. Tale principio è stato implicitamente costituzionalizzato ex art. 25 Cost. comma II e, per l’effetto, comporta non il divieto di analogia e l’obbligo per il legislatore di descrivere le fattispecie penalmente rilevanti con chiarezza e precisione, in modo che sia sempre possibile per il cittadino prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Alla luce di tale principio, il sintagma ex 513 bis “atti di concorrenza era ritenuto ambiguo dalla giurisprudenza, incerta se con essa si facesse riferimento alla nozione civilistica di atto di concorrenza ovvero se occorresse (cd. tesi restrittiva) o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo la mira teleologica dell’agente (cd. tesi estensiva). Rimessa la questione a Sezioni Unite, la sentenza in commento ha affermato il seguente principio di diritto: ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente.

L’articolato percorso logico-argomentativo delineato dalle Sezioni Unite parte dalla confutazione di entrambi i due opposti orientamenti interpretativi. Da un lato, non è accettabile la c.d. tesi restrittiva perché nel nobile tentativo di conferire alla norma maggiore determinatezza, le attribuisce una capacità di tutela dei beni giuridici in gioco fortemente ridotta, ridimensionata a tal punto da renderla in concreto inapplicabile se non in casi assai limitati. Allo stesso modo, è inaccettabile l’interpretazione accolta secondo la tesi estensiva, che comporterebbe il risultato di una equiparazione tra l'atto violento o minaccioso finalizzato a inibire la concorrenza - non ravvisabile nel dato normativo - e l'atto di concorrenza commesso con violenza o minaccia - espressamente annoverato tra gli elementi costitutivi del reato. Emergono, dunque, con evidenza, i rischi di compressione del principio di tassatività e determinatezza della legge penale. Non solo, la tesi estensiva rafforzerebbe del tutto impropriamente l'incidenza dell'elemento psicologico del reato poiché, al di fuori di condotte intimidatorie poste in essere nell'esercizio dell'attività concorrenziale, il fine dei comportamenti illeciti dovrà comunque dirigersi verso il contrasto dell'altrui libertà di concorrenza.

Di contro, prospettive di maggiore interesse ai fini della corretta soluzione del quesito emergono, secondo gli Ermellini, nella soluzione “mediana” prospettata da tempo da un terzo orientamento giurisprudenziale nella parte in cui si propone di ridefinire la tipicità della fattispecie assegnando al compimento di atti di concorrenza una rinnovata centralità nel quadro evolutivo della pertinente normativa di riferimento, sia interna che eurounitaria, senza, tuttavia, tralasciare l’importanza del richiamo alle ragioni e le finalità di tutela poste a fondamento dell’articolo 513 bis c.p.
Prospettive il cui approfondimento è collegato al contesto normativo profondamente mutato rispetto a quello nel quale inizialmente venne inserita la predetta fattispecie di reato: un contesto multiarticolato e dunque più ampio.

Posta tale premessa, le Sezioni Unite giungono alla loro definitiva conclusione ponendo in rilievo alcuni aspetti fondamentali. Da un lato, la struttura normativa della fattispecie di reato, che postula sia la qualità di imprenditore in capo al soggetto attivo che, direttamente o indirettamente, pone in essere la condotta, sia l’esistenza di un rapporto di competizione economica nei confronti del soggetto passivo (c.d. contesto concorrenziale); dall’altro, la natura pluri-offensiva del reato, atteso che tutela un doppio bene giuridico rappresentato sia dall’interesse, ampio, al corretto funzionamento del sistema economico - bene finale -, sia dall’interesse, soggettivo, di ciascuno alla libertà di autodeterminarsi nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva. Da ultimo, connota la fattispecie l’uso della violenza o della minaccia, che non figurano come elementi finalisticamente orientati, bensì come elementi costitutivi della condotta che concorrono a delinearne la tipicità, come confermato dalla stessa rubrica normativa in cui si legge “illecita” concorrenza e non semplicemente “sleale”.


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