Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Lecce aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di primo grado aveva rigettato la domanda con cui un medico aveva chiesto il risarcimento dei danni subiti a seguito della condotta vessatoria tenuta nei suoi confronti dalla ASL presso la quale lavorava.
Secondo la Corte d’appello, infatti, il lavoratore non aveva dimostrato che le condotte poste in essere dalla ASL fossero collegate da un “programmato disegno” attuato allo scopo di mortificare la personalità e la professionalità del lavoratore.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, infatti, la Corte d’appello, nel respingere la domanda risarcitoria, non avrebbe adeguatamente tenuto in considerazione il fatto che il lavoratore era stato “privato per oltre un decennio del suo ruolo di primario ed isolato in un reparto fantasma”.
Secondo il ricorrente, dunque, la Corte d’appello non aveva dato corretta applicazione all’art. 2087 c.c., in quanto “era stato provato il danno biologico, sia pure temporaneo, derivato dall'attività mobbizzante” posta in essere dalla ASL.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione al medico, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che il ricorrente aveva affermato “di essere stato oggetto di condotta vessatoria produttiva di danno”, consistita nella “disattivazione del reparto di cardiologia” e “nella mancata assegnazione dell'incarico equivalente di primario” presso un altro ospedale.
Ebbene, secondo la Cassazione, la condotta oggetto di contestazione non poteva essere considerata “mobbing”, in quale presuppone delle condotte vessatorie, ripetute nel tempo e sistematiche, caratterizzate da intento persecutorio.
Precisava la Cassazione, in proposito, che il “mobbing” richiede, nello specifico, “una serie di comportamenti di carattere persecutorio (…) che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi”.
Ai fini del “mobbing”, inoltre, è necessario che si verifichi un “evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente” e che vi sia un rapporto di causalità tra le condotte descritte e il pregiudizio subito dalla vittima.
Poiché, nel caso di specie, non apparivano sussistenti gli elementi costitutivi della fattispecie del “mobbing”, la Corte di Cassazione riteneva di dover rigettare il ricorso proposto dal medico, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.