Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva ritenuto sussistente la condotta di “mobbing” posta in essere nei confronti di un dipendente pubblico (precisamente, un vigile urbano), condannando il Comune datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore stesso.
Nello specifico, il Comune era stato ritenuto colpevole in quanto aveva assegnato delle nuove mansioni al dipendente pubblico, a seguito di un giudizio di inidoneità allo svolgimento delle mansioni precedentemente assegnate.
Ebbene, secondo la Corte d’appello, tale provvedimento doveva ritenersi illegittimo, dal momento che il datore di lavoro aveva ingiustificatamente svuotato di fatto il dipendente dalle proprie mansioni, lasciandolo inattivo e sostanzialmente senza compiti.
Le dichiarazioni testimoniali raccolte, avevano confermato che “vi era stata una lunga inattività” da parte del dipendente, che si era protratta per più di un anno.
Addirittura, il dipendente “era stato lasciato inattivo e isolato, privo di scrivania e di un ufficio, costretto a sostare in piedi nel corridoio”.
Inoltre, ad un certo punto, al medesimo era stato assegnato lo svolgimento delle “pratiche cimiteriali”, con sede stabilita “presso gli uffici cimiteriali” e, dunque, in un “luogo igienicamente non adeguato, non conforme alle più elementari norme di sicurezza, oltre che lesivo della stessa dignità umana”.
Secondo la Corte, quindi, appariva “evidente che tale locale avesse una funzione al tempo stesso punitiva e rappresentativa, essendo volto a veicolare un messaggio chiaramente mobbizzante di cui era destinatario direttamente il lavoratore ed indirettamente anche gli altri, messaggio che ne’ lui, ne’ gli altri, colleghi o meno, avrebbero potuto fraintendere”.
In particolare, tale condotta da parte del Comune appariva posta in essere “per finalità ritorsive”, perché il dipendente aveva “dato luogo a rimostranze, prima in sede extragiudiziaria e poi giudiziaria, in presenza di determinazioni datoriali che egli riteneva illegittime, reagendo anzichè acquietarsi e subirle passivamente”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il Comune datore di lavoro decideva di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Il Comune, in particolare, contestava la sussistenza del mobbing, evidenziando che “non vi erano elementi per affermare l’esistenza di un intento persecutorio o di vessazioni poste in essere dal Comune ai danni del proprio dipendente”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dal Comune, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’appello aveva “ricostruito, alla stregua delle risultanze della prova testimoniale e documentale, i numerosi elementi atti a configurare, nel loro concorso, il mobbing lavorativo”.
Precisava la Corte, che, per potersi parlare di “mobbing” occorre “a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalita’ o della dignita’ del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrita’ psico-fisica e/o nella propria dignita’; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi”.
Nel caso di specie, secondo la Cassazione, era stata provata la sussistenza di tutti gli elementi che caratterizzano il “mobbing”, con la conseguenza che la decisione della Corte d’appello doveva ritenersi del tutto corretta.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal Comune, confermando integralmente la sentenza di condanna resa nel secondo grado di giudizio.