La vicenda trae origine dal ricorso promosso da un imputato condannato in primo e secondo grado per il reato di indebito utilizzo di strumenti di pagamento ex. articolo 493 ter del Codice di procedura penale.
L’imputato solleva quattro motivi di doglianza nell’impugnazione della sentenza in Cassazione:
- Omessa applicazione dell’art. 131 bis del Codice Penale,
- utilizzabilità di una comunicazione non preventivamente acquisita agli atti,
- inutilizzabilità delle presunzioni da cui il precedente Giudice aveva dedotto la mancata autorizzazione per l’uso del bancomat
- ma soprattutto l’inutilizzabilità dei messaggi Whatsapp prodotti a seguito dell’assenza dello smartphone e dell’estrazione rituale degli stessi.
La Cassazione infatti per quanto riguarda la valenza probatoria dell’uso dei messaggi, oggetto della testimonianza della persona offesa, ha stabilito che “in tema di mezzi di prova, i messaggi "Whatsapp" e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all'acquisizione di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen." Cass. n. 1822 del 12/11/2019.
La Corte conferma che qualora non sia in corso un’attività di captazione delle comunicazioni, il testo del messaggio ha natura di documento, a confermarne la sua validità è la qualifica soggettiva dell’agente che ne effettua la riproduzione, dunque, la riproduzione è utilizzabile anche senza il sequestro dell’apparecchio.
Nel caso di specie, la Corte riconosce che i messaggi sono stati scaricati dalla persona offesa, avvalorandone l’utilizzabilità alla luce della sua riconosciuta attendibilità nel corso del processo.