Ma oggi, se un’insegnante dà una sberla ad un suo alunno, rischia l’imputazione per un qualche tipo di reato?
La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 31642 del 21 luglio 2016, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’Appello aveva confermato la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale aveva dichiarato un’insegnante colpevole del reato di “lesioni personali” (art. 582 codice penale) e “abuso dei mezzi di correzione” (art. 571 codice penale), in danno di un minore, condannandola al risarcimento dei danni in favore dei genitori.
Ritenendo la sentenza ingiusta, l’insegnante proponeva ricorso per Cassazione, deducendo la carenza e illogicità della motivazione della sentenza, non sussistendo la prova della responsabilità penale dell’insegnante.
In particolare, secondo la medesima, nessuno aveva mai riferito di “comportamenti violenti della ricorrente nei confronti degli alunni, laddove le dichiarazioni accusatorie del bidello A.M. sono frutto di invenzione volta a giustificare la fuga del ragazzo dalla scuola e il certificato medico non costituisce prova del fatto in quanto non dimostra che le lesioni siano state causate
dall’insegnante”.
La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter accogliere le rimostranze della ricorrente, dichiarando il ricorso inammissibile.
Secondo la Cassazione, la Corte d’Appello avrebbe dato rilievo, in sentenza, non solo del racconto della vittima (che aveva riferito di aver subito uno schiaffo e di essere stato strattonato per i capelli dall’imputata) ma anche ad altri elementi probatori, come la testimonianza del bidello (il quale aveva confermato che l’insegnante aveva dato “al bambino in lacrime due scappellotti sulla nuca”) e il certificato medico dello stesso giorno dei fatti, “in cui si descrivono lesioni pienamente compatibili con il racconto del bambino”.
Di conseguenza, la Corte d’Appello risultava essersi pronunciata con una sentenza corredata di motivazione coerente con i risultati probatori e priva di vizi logici.
Pertanto, la Cassazione dichiarava l’inammissibilità del ricorso, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di un ammenda pari a Euro 1.000.