La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 4330/2019, ha affermato la legittimità dei cartelli collocati all’ingresso delle strutture sanitarie lombarde, recanti il divieto di indossare il burqa, per ragioni di sicurezza.
La vicenda traeva origine dal ricorso proposto ex art. 28, d. lgs. n. 150/2011 da talune Associazioni contro la Regione Lombardia.
Segnatamente, le parti ricorrenti adivano il Tribunale di Milano per ivi sentir accertare e dichiarare il carattere discriminatorio di una deliberazione della Giunta Regionale Lombarda avente ad oggetto il rafforzamento del sistema di controllo, di identificazione e della sicurezza, vietando “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona” presso gli enti individuati dall’art. 1, l.r. n. 30/2006, tra i quali le Aziende Ospedaliere, ed ordinando alle strutture regionali competenti l’adozione di atti attuativi della suddetta delibera (nel caso di specie, l’attuazione avveniva con cartelli recanti la scritta: “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con volto coperto”, accompagnata da tre immagini di persone con casco, passamontagna e burqa, ciascuna all’interno di un cerchio rosso sbarrato).
Per l’effetto, le Associazioni ricorrenti chiedevano: a) la revoca della deliberazione con contestuale pubblicazione integrale del provvedimento emanando; b) la disposizione di un piano di rimozione della lamentata discriminazione, con contestuale condanna alle spese.
La Corte d’appello, confermando l’ordinanza resa dal giudice di prime cure, ha avuto modo di evidenziare come la delibera in questione riservasse un identico trattamento a tutti coloro che accedevano a determinati uffici, stante la genericità e l’astrattezza del divieto di accesso ai predetti luoghi con il viso coperto, posto a presidio della pubblica sicurezza.
Peraltro, quand’anche si ritenesse un simile divieto discriminatorio e lesivo della libertà religiosa per quelle donne che, per ragioni di culto, indossano il velo (nelle forme del “burqa” o del “niqab"), il sacrificio della libertà garantita dall’art. 19 Cost. andrebbe bilanciato con la legittima necessità di garantire l’identificazione ed il controllo per la richiamata finalità di pubblica sicurezza.
In sostanza, a fronte dell’esigenza di identificare coloro che fanno ingresso in strutture a cui accedono quotidianamente molte persone, sono legittime talune misure restrittive orientate alla prevenzione di taluni reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico.
Va osservato, infatti, che solo le grandi strutture ospedaliere sono dotate di postazioni delle Forze dell’Ordine, mentre la maggior parte dei nosocomi difetta di un’adeguata organizzazione e del personale autorizzato all’identificazione dei fruitori dei servizi offerti da tali strutture.
I giudici hanno, altresì, rilevato che, trattandosi di un divieto circoscritto al tempo necessario per la permanenza in detti luoghi pubblici ove è impossibile identificare ciascun fruitore per l’assenza di tornelli e controlli all’ingresso, dovrà ritenersi - a fortiori - ragionevole e proporzionato il sacrificio dei diritti di cui agli artt. 8 e 9 della CEDU, che tutelano la vita privata nonché la libertà di pensiero, coscienza e religione.
Del resto, val la pena di ricordare che l’ammissibilità di restrizioni alla libertà di religione, qualora ciò si renda necessario ai fini della sicurezza pubblica, trova radici normative proprio nella disposizione di cui all’art. 9 della CEDU, che testualmente recita: “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”.