La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26682 del 10 novembre 2017, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso esaminato dagli Ermellini, la Corte d’appello di Ancona, in riforma della sentenza di primo grado, aveva confermato la legittimità del licenziamento disciplinare che era stato intimato ad un lavoratore, il quale aveva inviato, dal pc aziendale, una serie di e-mail in cui erano state ripetute “espressioni scurrili nei confronti del legale rappresentante della società e di altri collaboratori, qualificandoli di inettitudine e scorrettezza con l'uso di espressioni inurbane”.
Ritenendo la decisione ingiusta, il lavoratore aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.
Secondo il ricorrente, in particolare, il datore di lavoro non avrebbe avuto il diritto di controllare il suo computer aziendale, in quanto tale condotta si poneva in contrasto con l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori e della normativa sulla privacy (d. lgs. n. 196 del 2003).
La Suprema Corte , tuttavia, non riteneva di poter dar ragione al lavoratore, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.
Osservava la Cassazione, infatti, che la Corte d’appello aveva adeguatamente valutato come la condotta contestata al ricorrente avesse determinato il venir meno del rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore.
Secondo la Cassazione, peraltro, non poteva invocarsi, a favore del lavoratore, l’art. 11 del codice della privacy (in base al quale “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”), in quanto, dagli accertamenti effettuati in corso di causa, era emerso come fosse una “prassi”, all’interno dell’azienda in questione, quella di duplicare periodicamente tutti i dati contenuti nei computer aziendali.
Evidenziava la Cassazione, inoltre, che non vi era stata alcuna violazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, in quanto i testimoni sentiti in corso di causa avevano confermato che la lettura dei file era stata imposta “dall'anomalia segnalata dall'amministratore di sistema, il quale l'aveva imputata proprio al tentativo di cancellazione dei file che il sistema conservava, inclusi i messaggi di posta elettronica”.
Secondo la Cassazione, dunque, nel caso di specie, il datore di lavoro non aveva provveduto ad effettuare dei controlli “finalizzati all'esatto adempimento dell'obbligazione lavorativa”, bensì all’acquisizione “di un dato registrato dalle apparecchiature aziendali, della cui conservazione e duplicazione il lavoratore era al corrente, e la cui lettura era giustificata dall'emergenza di un comportamento inteso ad eludere tale nota prassi e tale da far ragionevolmente insorgere il sospetto dell'effettuazione di condotte lesive di beni sostanzialmente estranei all'adempimento delle obbligazioni lavorative, ma intesi alla difesa di altri beni (in primo luogo l'immagine dell'impresa e la doverosa tutela della dignità di altri lavoratori)”.
A sostegno della propria decisione la Corte rilevava che, già con sua precedente sentenza (n. 2722 del 2012), “ha ritenuto legittimo il controllo effettuato da un istituto bancario sulla posta elettronica aziendale del dipendente accusato di aver divulgato notizie riservate concernenti un cliente, e di aver posto in essere, grazie a tali informazioni, operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggi propri”.
In quel caso, in particolare, la Corte aveva ritenuto che non trovasse applicazione l’art. 4 della legge n. 300 del 1970, “essendo posta in essere una attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali che prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull'esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti ed era, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) dagli stessi posti in essere”.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dal lavoratore, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.