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Lavoro: si può essere licenziati per offese e insulti?

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Lavoro: si può essere licenziati per offese e insulti?
È legittimo il licenziamento del dipendente che abbia tenuto un comportamento ingiurioso, non essendo necessario l’accertamento di un reato.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 38877 del 7 dicembre 2021, ha affrontato il tema della legittimità del licenziamento del dipendente per comportamento ingiurioso. Sul punto, la Corte ha ritenuto che il fatto che la condotta tenuta del dipendente non sia sussumibile in alcuna fattispecie di rilievo penale non preclude al datore di lavoro di licenziarlo per giusta causa, qualora il comportamento sia comunque di rilievo disciplinare e consista nel pronunciamento di epiteti offensivi, in contrasto con i generali canoni di civile convivenza nonché con i basilari obblighi nascenti da un rapporto di lavoro.

La Suprema Corte, infatti, ha rilevato che l’avvenuta depenalizzazione dell’ingiuria non ha rilevanza alcuna sui contratti collettivi che qualificano l’ingiuria come giusta causa di licenziamento: se, infatti, il contratto si riferisce non tanto al “reato di ingiuria” quanto piuttosto all’ingiuria quale contenuto di offese, deve ritenersi operante il principio di autonomia tra giudizio penale e disciplinare. Per tale ragione si legge nella motivazione della recente ordinanza, la quale si pone in linea di continuità con l’orientamento già ampiamente diffuso in giurisprudenza, che “la gravità della condotta ascritta al dipendente può avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonea a giustificare il licenziamento anche ove la stessa non costituisca reato”.

Tanto chiarito, la Cassazione si è preoccupata altresì di specificare quali sono gli elementi che in concreto devono essere tenuti in considerazione al fine di qualificare l’ingiuria non penalmente rilevante come giusta causa di licenziamento.
Essi, nello specifico, sono:
  • l’idoneità della condotta a ledere la fiducia del datore di lavoro;
  • la prognosi circa il pregiudizio agli scopi aziendali che deriverebbe dalla continuazione del rapporto di lavoro.
La vicenda concreta giunta al vaglio della Suprema Corte, in particolare, originava dal licenziamento di un soggetto dall’Università dipeso dalle offese e minacce da questo rivolte ad un coordinatore nonché dalla sua insubordinazione.
Tale licenziamento era stato ritenuto in via sommaria illegittimo per sproporzione, atteso che era stata accertata solo la condotta ingiuriosa e non anche quella di minacce e di insubordinazione. Avverso questa ordinanza, il soggetto licenziato aveva proposto opposizione, la quale però era stata respinta dal Tribunale di Milano.
Il licenziato, allora, aveva proposto reclamo in sede di procedimento ex art. 1co. 58 L. 92 del 2012 al fine di far dichiarare il licenziamento in radice illegittimo per assenza di giusta causa. Secondo la prospettazione del reclamante, infatti, pur essendo vero che il Contratto collettivo dell’Università annoverava l’ingiuria tra le cause di giusta causa di licenziamento, tale dato contrattuale doveva leggersi alla luce della depenalizzazione del reato di ingiuria.
La Corte d’appello, tuttavia, aveva rigettato il reclamo poiché le ingiurie sono comunque in contrasto con i canoni di civile convivenza e con gli obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, ritenendo però sproporzionata la sanzione irrogata rispetto al comportamento accertato e ritenendo preferibile la tutela indennitaria.
Avverso tale sentenza il licenziato aveva dunque proposto ricorso in Cassazione, al quale aveva resistito l’Università con ricorso incidentale. Tra le varie doglianze proposte, è qui rilevante richiamare solo quella proposta dal ricorrente principale relativa alla violazione dell’art. [[n360cpc] c.p.c. per non avere, la Corte d’appello, dichiarato la nullità del Contratto Collettivo per contrasto con l’art. 2119 c.c. a seguito della depenalizzazione del reato di ingiuria.
Ebbene, nel dichiarare tale doglianza infondata, la Suprema Corte ha ribadito gli importanti principi innanzi esposti.


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